La fatale sorte dell’agente scelto Giuseppe Baccaro. Una storia da reintegrare nella memoria collettiva del nostro paese!

In foto: l’agente scelto Giuseppe Baccaro

(Fonte foto: http://www.cadutipolizia.it/index.asp)

Ci sono storie avvolte da un permanente e disonesto silenzio; storie mai degnate di un attento e vero approfondimento nelle pagine dei quotidiani nazionali; storie che anche la cronaca locale ormai non ricorda più. Una di queste storie risale al 17 febbraio di ventinove anni fa. Una vicenda su cui non si è mai fatta veramente luce. Il protagonista è un giovane ragazzo che aveva ventiquattro anni. La mia stessa età. Visitando il sito non istituzionale: http://www.cadutipolizia.it/index.asp, la mia attenzione è stata fortunatamente attirata da questa giovane vittima del dovere. Scandagliando il web ho provato a raccogliere più informazioni possibili su di lui e sulla sua vita. Proponendomi di trovare tante altre notizie, ho effettuato diverse ricerche negli archivi di alcune testate. Con grande tristezza, ho potuto denotare che di notizie ce n’erano ben poche da poter raccogliere. Nonostante tutto ciò, oggi voglio ricordare a ognuno di voi questo giovane poliziotto e il suo degno sacrificio. Si chiamava Giuseppe Baccaro ed era nato nella frazione di Sant’Angelo in Formis. Un piccolo paese situato nei pressi del Comune casertano di Capua. Seguendo le orme di molti altri suoi coetanei, Giuseppe decise di voler avvicinarsi al mondo delle Forze Armate. A tal proposito, si arruolò nella polizia di Stato. Nel corso della sua breve carriera di poliziotto, si guadagnò presto anche la qualifica di agente scelto. Prestava servizio presso la questura di Milano. In particolare, Giuseppe era operante nella divisione operativa della DIGOS. Il 17 febbraio del 1983, Giuseppe era in licenza. Da pochi giorni, gli avevano offerto un po’ di ferie. Quella spettante pausa di riposo, Giuseppe aveva scelto di trascorrerla nella sua terra natia. Forse il freddo aleggiava ancora nell’aria quel 17 febbraio. Era un giovedì d’inverno inoltrato e nelle autoradio si cominciavano a diffondere le prime hit sanremesi. Quel giovedì sera, Giuseppe aveva deciso di passarlo insieme alla sua giovane ragazza. A bordo della sua auto, si diressero verso il Comune di Castelvolturno per andare a ballare in un locale della città. Una volta usciti, salirono in auto dirigendosi verso la spiaggia di Castelvolturno. Lasciando la macchina in sosta, si appartarono in una zona poco distante dal “Lido Aurora”; (uno stabilimento balneare situato presso il Comune di Castelvolturno). Improvvisamente, accadde qualcosa d’inaspettato. Tre loschi individui avanzarono verso l’auto di Giuseppe. Avevano i volti coperti da passamontagna ed erano armati di pistole. Con l’intento di mettere in atto una rapina, quei tre criminali inveirono contro Giuseppe e la sua giovane innamorata. Utilizzando il corpo come scudo per difendere la vita della sua fidanzata, Giuseppe tirò fuori la pistola d’ordinanza. Proprio in quel momento, uno di quei tre rapinatori si accinse a premere il grilletto della propria pistola. Bastarono due proiettili a far morire il povero Giuseppe. La ragazza incredula e scioccata vide Giuseppe morirgli tra le braccia. Senza prelevare alcunché dall’auto, quei tre luridi individui, si dileguarono tra i meandri della notte. Un lieto e amorevole momento di vita si era trasformato in una dannata tragedia. È triste da dirsi ma da quella tragica sera, quasi nessuno ha più ricordato la vicenda di questo ragazzo. Gli unici forse sono stati i suoi cari concittadini. Soltanto dopo ben ventotto anni, Giuseppe è stato riconosciuto “vittima del dovere”. Infatti, il 21 – 04 – 2011, Giuseppe è stato insignito della Medaglia d’argento al merito civile. Questa meritata onorificenza è stata conferita con la seguente motivazione: Libero dal servizio, mentre si trovava con un’amica a bordo della propria autovettura in sosta, improvvisamente veniva circondato da un gruppo di giovani che, a volto coperto e armati di pistola, si accingevano a compiere una rapina. Immediatamente reagiva impugnando l’arma di ordinanza ma, nel tentativo di salvare la donna facendole scudo con il proprio corpo, veniva mortalmente colpito dai malviventi, sacrificando la vita ai più nobili ideali di coraggio e di altruismo. 17 febbraio 1983 – Castel Volturno (CE). Non dimentichiamolo! La prossima goccia di memoria cadrà il due marzo …. Vi aspetto su “Melting Pot”!

Un caloroso saluto a tutti voi.

Pasquale Scordamaglia

17 – 02 – 2012

Fonti: http://www.cadutipolizia.it/fonti/Polizia1981/1983baccaro.htm

http://www.poliziotti.it/public/polsmf/index.php?topic=9925.0

http://www.capuaonline.it/blocknotes/03/feb/index4.html

http://www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnorificenze.aspx?decorato=313880

http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/action,page/id,1386_02_1983_0047_0013_19736546&s=b80807b73f82b6a58ec4fc385687c012


119 anni dalla feroce uccisione del Marchese Notarbartolo. Un aristocratico incline all’etica e avverso al malaffare

In foto: Il marchese Emanuele Notarbartolo

Un Don Chisciotte a disagio con la corruzione; Pronunciando questa eloquente ed evocativa frase, la scrittrice e poetessa Dacia Maraini, ricordava metaforicamente la diligente figura di un siciliano retto e onesto. L’immagine di un perfetto galantuomo che ripudiando da sempre il malaffare, non tradì mai la propria autentica e lungimirante coerenza morale. Un aristocratico che da 119 anni a questa parte, si commemora come il primo eccellente e “innocente” bersaglio della sconsiderata tirannia mafiosa. Ripercorrendo i longevi e distanti anni dell’Ottocento siciliano, oggi ho deciso di raccontarvi questa storia affinché nei vostri cuori e nelle vostre coscienze, possa insidiarsi quel fresco profumo di libertà che come affermava provvidenzialmente il giudice Borsellino, fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità. Dopo questa breve parentesi, inizia proprio da qui il mio racconto. Il suo nome era Emanuele Notarbartolo ma per via delle sue aristocratiche e raffinate origini, divenne presto marchese di San Giovanni. Discendente dei Duchi di Villarosa e appartenente alla dinastia dei Principi di Sciara, Emanuele nacque a Palermo il 23 febbraio del 1834. Già bambino divenne presto orfano di entrambi i genitori. Dalla tenera infanzia fino ai ventitré anni, Emanuele era rimasto in Sicilia. Desideroso di vivere nuove appassionanti esperienze, nel 1857, lasciò Palermo per trasferirsi a Parigi. Continuando a girovagare per l’Europa, giunse prima a Bruxelles e poi a Londra. In occasione di quel soggiorno londinese, conobbe due conterranei che erano emigrati anch’essi dalla Sicilia. I loro nomi erano Michele Amari e Mariano Stabile ed erano due esponenti del Risorgimento. Sfruttando la loro preziosa conoscenza, molte ore del proprio tempo, Emanuele cominciò a riservarle allo studio. Approfondendo le proprie conoscenze economiche e storiche, sostenne i principi fondanti che promuovevano il liberalismo conservatore. Lasciando l’Inghilterra, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze. Fu proprio in questo periodo, che conobbe alcuni dei più autorevoli e illustri rappresentanti della futura classe politica italiana e siciliana. Uno di questi era il futuro senatore del Regno D’Italia, Francesco Lanza di Scalea. Maturando le proprie idee politiche, Emanuele si apprestò a far parte del movimento politico della Destra Storica. Animato da un verace patriottismo, si schierò al fianco dei Mille nei panni di giovane garibaldino. In particolare, nel luglio del 1860, si distinse nella Battaglia di Milazzo e nell’occupazione di Messina. Dopo la proclamazione del Regno D’Italia e l’elezione del primo Parlamento Italiano, Emanuele depose la propria divisa da ufficiale. Lasciato l’esercito, ritorno in Sicilia e si unì in matrimonio con Marianna Merlo. Correva l’annata del 1865 quando poco più che trentenne, si apprestò a ufficializzare il suo esordio in politica. Restando in perfetta convergenza con gli obiettivi dei moderati di destra, Emanuele prese parte alla giunta presieduta dal sindaco Antonio Starrabba di Rudinì. Quest’ultimo, decise di nominarlo assessore alla polizia urbana del Comune di Palermo. Un paio di anni dopo, nel 1869, fondò e diresse un nuovo quotidiano giornalistico che prese il nome di “Corriere Siciliano”. Quella moderna esperienza fu alquanto breve per Emanuele. Infatti, a seguito di un importante incarico, Emanuele lasciò subito la testata. Nello specifico, era stato invitato a entrare nel consiglio di amministrazione dell’ospedale cittadino. Cosciente dell’inadeguata e grave condizione dell’ospedale, il marchese accettò immediatamente quell’invito. Dal 1870 fino al 1873, fu designato per dirigere il medesimo Ospedale. In soli tre anni, l’Ospedale Civico era ritornato del tutto efficiente e funzionale. Le molteplici inadempienze che gravavano sul sistema sanitario, furono poco a poco annientate dall’efficace e integerrimo intervento del marchese. La sua gestione ridiede respiro alle casse sanitarie rendendo pulite e accoglienti tutte le strutture dell’ospedale. In aggiunta, fu anche raddoppiata la quantità dei posti letto. Quella sua magnifica condotta amministrativa gli valse la fama di uomo affidabile e onesto. Lasciata la dirigenza dell’Ospedale Civico, Emanuele ritornò al Comune nella rappresentativa veste di primo cittadino. Eletto il 28 settembre del 1873, rimase in carica fino al 30 settembre del 1876. Svolgendo fino in fondo il proprio dovere, il marchese rivalutò con incisività l’intero patrimonio urbanistico di Palermo. Nel corso di tutto il suo mandato, contribuì ad attuare una serie di opere nel solo e unico interesse dei suoi cittadini. Opere significative come il completamento del mercato degli Aragonesi, la copertura del teatro Politeama, l’ammodernamento della rete viaria, i vari interventi per migliorare le condotte idriche, il collegamento della stazione centrale con il porto, i lavori di costruzione del cimitero dei Rotoli e la posa della prima pietra per avviare la realizzazione del Teatro Massimo. Come se non bastasse, s’impegnò fortemente nel fronteggiare la diffusa e grave corruzione nelle dogane. Nella sua agenda comunale non c’era posto per le consolidate clientele della cattiva politica locale. Sotto la sua vigile e rigorosa guida, il sistema di assegnazione degli appalti fu sottoposto a un vero e proprio processo di normalità amministrativa. Anziché riservarli ai soliti loschi personaggi, Emanuele decise di assegnarli soltanto a ditte in odor di legalità. Questa perseveranza nel diffidare da ogni forma d’ingiustizia, a più di qualcuno non piaceva. Ovvero, quella deplorevole zona  grigia che si aggirava tra gli insalubri e avidi ambienti della malavita locale. In conseguenza di ciò, la coscienziosa attività di Emanuele, fu ostacolata da un delegittimante progetto d’isolamento. Dal 1876 fino al 1890, ricoprì l’impegnativo ruolo di direttore generale del Banco di Sicilia. Appena insediato, la situazione del Banco era alquanto tragica. L’istituto di credito era quasi ad un passo dal fallimento. Dopo l’avvento dell’Unità d’Italia, il Banco di Sicilia era stato oppresso da una miriade di operazioni speculative che avevano prosciugato gran parte delle risorse finanziarie di cui beneficiava l’istituto. I provvedimenti messi in atto dal marchese si dimostrarono tutt’altro che inefficaci. Investendo tutte le proprie astute competenze economiche, Emanuele riuscì a scongiurare la preannunciata possibilità di un definitivo decadimento dell’economia siciliana. Nel giro di pochi anni, l’istituto era stato risanato con una radicale riorganizzazione del sistema bancario. Impedendo l’affiorare di nuove speculazioni, Emanuele ideò una serie d’innovativi e adeguati provvedimenti come l’istituzione dei concorsi fra le società operaie di Mutuo Soccorso, gli aiuti rivolti alla cassa dei piccoli prestiti per la categoria della classe operaia, la creazione della cassa di assicurazione contro gli infortuni degli operai sul lavoro, la modifica dello statuto del Banco. Modificando le norme previste dall’ordinamento dello statuto, egli smantellò una consolidata e immorale tendenza finanziaria. Purtroppo, quelle innovative e costruttive scelte, furono boicottate da un consiglio di amministrazione che non aveva di certo a cuore il futuro della Sicilia. La maggioranza di quel consiglio era prevalentemente formata da politici. Tra questi era presente anche l’onorevole Raffaele Palizzolo. Raffaele Palizzolo era un deputato del Regno d’Italia abbastanza noto per le sue poco raccomandabili frequentazioni. Conosciuto anche con il soprannome di “U Cignu” il cigno, Palizzolo era divenuto uno dei principali referenti politici di Cosa Nostra. Nel maggio del 1882, Emanuele fu sequestrato da un gruppo di uomini. Lo liberarono dopo il pagamento di un consistente riscatto. Dietro quel sequestro si nascondeva un chiaro avvertimento intimidatorio. Un segnale che con molta probabilità, era stato attuato dal Palizzolo e dai suoi complici. Nonostante tutto, Emanuele non abbassò la testa. Senza alcun timore, nel 1889, redisse un dettagliato fascicolo di denuncia. Fiducioso che fosse fatta giustizia, lo inviò all’allora ministro dell’agricoltura Luigi Miceli. All’interno di tale fascicolo, era presente il nome dell’onorevole Palazzolo e di altre maestranze della politica siciliana. Onorevoli senza onore che si erano impropriamente arricchiti con i soldi di migliaia e migliaia di risparmiatori. In particolare, Emanuele rivelò dei rapporti che sussistevano tra Palizzolo e il capomafia di Caccamo. La sera del primo febbraio 1893, Emanuele aveva preso un treno presso la stazione di Sciara per ritornare a Palermo. Tra il casello di Trabia e quello di Termine Imerese, due uomini lo trafissero con 27 pugnalate. La mafia aveva compiuto la sua prima vile e brutale vendetta. La prossima goccia di memoria cadrà il 17 febbraio … vi aspetto su “Melting Pot”!

Un caloroso saluto a tutti voi.

Pasquale Scordamaglia

03 – 02 – 2012

In foto: Una vignetta raffigurante Notarbartolo al momento del delitto. ©Tutti i diritti riservati a: http://archiviofoto.unita.it/index.php 

In video:  Il racconto del magistrato Otello Lupacchini sull’assassinio del marchese Notarbartolo.

Fonti: http://archiviostorico.corriere.it/1992/marzo/15/Notarbartolo_primo_delitto_eccellente_quasi_co_0_92031516578.shtml

http://fenjus.blogspot.com/2010/02/quando-la-mafia-usava-il-coltello.html

http://www.cittanuove-corleone.it/La%20Sicilia,%20Notarbartolo,%20il%20primo%20delitto%20eccellente%2001.02.2009.pdf

http://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Notarbartolo

http://liberiliberisiamonoi.myblog.it/album/antimafia/notarbartolo-emanuele.html

http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=288:1-febbraio-1893-trabia-pa-ucciso-emanuele-notarbartolo-direttore-del-banco-di-sicilia&catid=35:scheda&Itemid=67

http://www.girodivite.it/Il-primo-delitto-eccellente-l.html

http://www.comune.palermo.it/archivio_biografico_comunale/schede/emanuele_notarbartolo.htm


Il ricordo degli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Due giovani figli del dovere falciati dalle mitraglie delle ndrine.

                

In foto: Gli appuntati scelti Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.

Fonte foto: http://www.stopndrangheta.it/stopndr/index.aspx

Due giovani e coraggiosi figli del dovere; Pensando ai due protagonisti della storia che oggi desidero raccontarvi, il cuore mi ha suggerito questa breve e simbolica frase. Non sono parole vuote. Si tratta di un necessario elogio che può permetterci di arricchire la nostra insaziabile e preziosa memoria. Un elogio che attraverso queste mie righe, intendo rivolgere a due martiri di questo nostro Italico Stivale. Altri due dignitosi servitori dello Stato che come accadde al maresciallo campano D’Arminio, furono annientati per aver audacemente svolto il loro intrepido dovere. Essi si chiamavano Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Sono esattamente loro, i due valorosi protagonisti di questa mia nuova goccia di memoria. Osservando le fotografie in divisa di Antonino e Vincenzo, ho provato una ricercata e sana emozione. Attraverso i loro puliti e coscienziosi volti, mi è sembrato di scorgere la parte migliore del meridione italiano. Quel mezzogiorno italiano che con la sua spontanea onestà e il suo intraprendente coraggio, ha abbracciato un affidabile ideale per annullare la sconsiderata minaccia delle consorterie ndranghetiste. Antonino Fava era nato il 15 dicembre del 1957 a Taurianova in provincia di Reggio Calabria. Vincenzo Garofalo invece, era nato il 10 aprile del 1960 nel paesino di Donnalucata; una piccola frazione marinara situata in provincia di Ragusa e collegata al Comune di Scicli. Erano tante le cose che avevano reso la vita di Antonino poco differente da quella di Vincenzo. Entrambi si erano sposati. Antonino era padre di tre figli. Vincenzo era padre di due figli. L’aspetto che li accomunava, maggiormente, era soprattutto l’Arma. Infatti, sia Antonino sia Vincenzo, prestavano servizio presso il comando provinciale dell’Arma di Reggio Calabria ed erano stati assegnati al Nucleo Radiomobile della Compagnia di Palmi. Come se non bastasse, entrambi avevano conseguito il grado di appuntati scelti. Era il pomeriggio del 18 gennaio 1994, quando ad Antonino e Vincenzo, pervenne l’ordine di scortare da Villa San Giovanni fino a Palmi, i seguenti magistrati: Giovanni Lembo, Pietro Vaccara, Franco Langher, Carmelo Marino e Gianclaudio Mango. Si trattava di cinque magistrati appartenenti al pool antimafia di Messina. Avevano varcato l’isola per recarsi presso il supercarcere di Palmi dove ad attenderli c’era il pentito Antonio Sparacio. Sparacio era un boss di spicco della mafia messinese. Era stato catturato nei giorni precedenti e fin da subito, aveva dimostrato di voler collaborare con la magistratura. A quei cinque magistrati fu affidato il compito di interrogarlo. Una volta arrivati a Villa San Giovanni, Antonino e Vincenzo, trasportarono i magistrati del pool messinese nella destinazione prevista. Una volta finito l’interrogatorio, i due appuntati sarebbero dovuti nuovamente tornare fino a Villa San Giovanni per scortarli. Mentre Antonino e Vincenzo si trovavano all’interno della loro Alfa settantacinque, dall’autoradio della gazzella era arrivato un inatteso contrordine. L’interrogatorio non era ancora terminato e si sarebbe protratto per molte ore. A tal proposito, la centrale aveva previsto la predisposizione di un normale pattugliamento del territorio. Con grande senso del dovere, Antonino e Vincenzo si attennero tempestivamente alla richiesta annunciata dalla centrale. Nel frattempo, era già sopraggiunta la notte. Restando al posto di guida della Gazzella, Vincenzo si apprestò ad attraversare la carreggiata sud dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria. Né lui né Antonino potevano presagire quello che di lì a poco, purtroppo, sarebbe accaduto. Proseguendo il loro servizio di pattugliamento, i due carabinieri superarono lo svincolo di Bagnara dirigendosi verso il casello di Scilla. Mancava una spicciolata di minuti prima che le lancette dell’orologio, segnassero le undici della sera. La distanza per accedere allo svincolo di Scilla, diminuiva rapidamente per la Gazzella. Improvvisamente, lungo la carreggiata sud, comparve un’auto a tutta velocità. Antonino e Vincenzo si resero subito conto che c’era qualcosa che non andava. Avvertendo all’istante la caserma, l’appuntato Garofalo disse: Pronto Centrale? Volevamo segnalarvi che una macchina, sull’autostrada, ci sta seguendo; proviamo a richiamarvi più tardi. Dalla rispettiva caserma, il collega rispose: “Dateci notizie al più presto”. Da quel momento, al posto della voce dell’appuntato Garofalo, l’ufficiale udì soltanto un interminabile e maledettissimo silenzio. A bordo di quella vettura sospetta, in realtà, c’era uno spietato commando della ndrangheta equipaggiato di mitragliette calibro 9 e Kalashnikov. A tre chilometri dall’approdare allo svincolo di Scilla, l’Alfetta su cui viaggiavano Antonino e Vincenzo, fu affiancata dalla vettura del commando. Imbracciando mitra e Kalashnikov, i Killer strattonarono la Gazzella. Sui corpi dei due appuntati, fu scagliata una dilaniante e straziante raffica di proiettili. Al termine di una disperatissima e inservibile frenata, la Gazzella arrestò la sua spericolata corsa lungo l’asfalto. Con impavido coraggio, Antonino e Vincenzo provarono a fronteggiare quel commando servendosi delle armi in dotazione. Purtroppo, neanche quelle pistole riuscirono a salvarli dalle impetuose mitragliate delle ndrine. Non soddisfatti, i killer decisero di completare quell’inquietante esecuzione, con un ultimo atto di crudeltà. Da distanza ravvicinata, spararono alla nuca dei due carabinieri. In un attimo, l’auto dei killer si era già dileguata. Accasciati tra le sfregiate lamiere della loro Alfa 75, Antonino e Vincenzo, spirarono all’istante. Nel tratto in cui era stata compiuta quell’agghiacciante mattanza, gli inquirenti raccolsero un totale di ben quindici bossoli. Un particolare dettaglio che evidenziava in modo del tutto chiaro, la sproporzionata e terrificante brutalità di quell’assurdo e selvaggio massacro. Due giorni dopo la tragedia, la mattina del 20 gennaio 1994, Reggio si svegliava in lutto rivolgendo il suo affranto e costernato saluto a quei due appuntati. Il dolore di un intero paese si rifletteva su due bare foderate da un triste tricolore. Quel tricolore che Antonino e Vincenzo avevano onorato in difesa di questa nostra cara Italia! La prossima goccia di memoria cadrà il tre febbraio … vi aspetto su “Melting Pot”!

Un caloroso saluto a tutti voi.

Pasquale Scordamaglia

20 – 01 – 2012

In foto: La Gazzella degli appuntati Fava e Garofalo dopo l’agguato. Fonte foto: (http://www.nsd.it/)

Nota: Il 24 maggio 1994 il Presidente della Repubblica Luigi Scalfaro, ha insignito della Medaglia D’Oro al Valor Militare e alla Memoria, gli appuntati scelti Antonino Fava e Vincenzo Garofolo.

Nota due: Da Circa due anni a questa parte, le dichiarazioni fornite dal pentito Gaspare Spatuzza, hanno fatto riaprire l’indagine concernente, l’assassinio dei due appuntati scelti. Ai pm palermitani, Ingroia e Di Matteo, Spatuzza ha rivelato che dietro l’assassinio degli appuntati scelti Garofalo e Fava, c’era anche Cosa Nostra.


Fonti:

http://archiviostorico.corriere.it/1994/gennaio/20/strage_mentre_pentito_parlava_co_0_940120372.shtml

http://archiviostorico.corriere.it/1994/gennaio/19/massacrati_due_carabinieri_co_8_940119921.shtml

http://archiviostorico.corriere.it/1994/gennaio/19/agguato_nella_notte_uccisi_due_co_8_940119922.shtml

http://archiviostorico.corriere.it/1994/gennaio/21/antistato_nello_Stato__co_0_9401211745.shtml

http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=203:18-gennaio-1994-scilla-rc-antonino-fava-e-vincenzo-garofalo-uccisi-in-un-agguato-&catid=35:scheda&Itemid=67

http://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Carabiniere/2004/01-Gennaio/Militaria/097-00.htm

http://www.nsd.it/forze-armate/-carabinieri-ricordati-vincenzo-garofalo-e-antonino-fava-uccisi-in-agguato-nel-1994.html

http://www.carabinieri.it/Internet/Arma/Oggi/AttivitaOperativa/Medagliere/DecorazioniIndividuali/MedagliaOroValorMilitareMemoria/Garofalo_Vincenzo.htm

http://www.carabinieri.it/Internet/Arma/Oggi/AttivitaOperativa/Medagliere/DecorazioniIndividuali/MedagliaOroValorMilitareMemoria/Fava_Antonino.htm

http://www.stopndrangheta.it/stopndr/art.aspx?id=321,Calabria%2c+agguato+ai+carabinieri


Il coraggio del maresciallo D’Arminio. Un investigatore di razza dall’incomparabile impegno civile.

In foto: Il Maresciallo dei Carabinieri Gerardo D’Arminio

Carissimi visitatori di Melting Pot, sono felice di raccontarvi una nuova storia. Una delle tante che ho conosciuto dopo aver consultato il prolungato e amaro elenco delle numerosissime vittime innocenti delle mafie. In particolare, ne approfitto per ringraziare personalmente Don Ciotti e tutte le persone che da circa sedici anni a questa parte, hanno deciso di unirsi all’impegno dell’associazione “Libera – nomi e numeri contro le mafie”. È un ringraziamento che intendo condividere con ciascuno di voi in occasione di questa Epifania. Grazie a Libera, oggi posso raccontarvi una vita che come tante altre valorose esistenze, è stata “ingiustamente” omessa dal ricordo collettivo di un intero paese. La vita di un uomo che con il suo stabile e disinvolto senso del dovere, ha contrastato le tante facce del malaffare. Quest’uomo era Gerardo D’Arminio. Nato nel territorio cilentano del comune di Montecorvino Rovella, Gerardo decise di lasciare la sua terra per cercare un po’ di fortuna altrove. A venti anni, si arruolò nell’Arma. Lasciando le spettacolari vallate della nativa Montecorvi, Gerardo iniziò a indossare con emozione e orgoglio la sua prima divisa. La sua ascesa nell’Arma fu del tutto rapida. Dopo i primi due anni di servizio, Gerardo raccolse un’allettante e considerevole qualifica all’interno dell’Arma. Da semplice appuntato dei carabinieri, a soli ventidue anni aveva già raggiunto il significativo grado di vicebrigadiere. Negli anni che seguirono, le capacità investigative di Gerardo apparivano del tutto fuori dal comune ai suoi superiori. Il suo intuito e la sua fermezza nel demolire i vari organi della malavita organizzata, furono i testimoni diretti di una carriera adornata da decisivi successi e da una lunga sequenza di meritate promozioni. Da Chieti a Isernia fino agli anni passati presso le caserme degli sperduti paesini della Sicilia, Gerardo partecipò ad alcune intricate e ardue operazioni investigative. A dimostrare il costante attivismo del suo irrefrenabile impegno, c’erano gli undici encomi solenni che Gerardo ricevette nel corso della sua attraente e impeccabile carriera. Con l’avviarsi dei primi anni sessanta, Gerardo fu assegnato alla stazione dei carabinieri di Palermo. Fu proprio in questa cruciale fase della propria vita, che Gerardo iniziò a maturare un’acuta e qualificata conoscenza di tutte quelle torbide dinamiche che andavano a regolare gli equilibri e gli interessi della malavita siciliana. Appena insediato, Gerardo fu operante presso il Nucleo di polizia giudiziaria con il delicato compito di trarre in arresto tutti quei criminali su cui pendevano dei pesantissimi mandati di cattura. Tra i suoi arresti eccellenti spiccava la cattura del boss palermitano Michele Cavataio che sei anni dopo, il 10 dicembre del 1969, sarebbe stato trucidato nella feroce Strage di Viale Lazio. Era l’agosto del 1963 quando senza un briciolo di titubanza, Gerardo si addentrò audacemente lungo la botola che conduceva al nascondiglio di quel pericoloso latitante. Gerardo ammanettò il boss senza dargli neanche il tempo di premere il grilletto della sua “Cobra Colt”. Alcuni anni più tardi, nel 1966, fu costituito il Nucleo investigativo sotto la direzione del Tenente Colonnello Giuseppe Russo. Tra i sottoufficiali immessi all’interno del Nucleo Investigativo, era stato scelto anche Gerardo. Offrendo un rilevante beneficio all’attività direttiva svolta dal Colonnello Giuseppe Russo, Gerardo continuò a investire ognuna delle proprie ottimali capacità a sostegno di alcune impegnative indagini che furono esclusivamente rivolte al netto contrasto della mafia siciliana. Rimanendo a Palermo per oltre quattro anni, Gerardo ricevette un lodevole grado all’interno dell’Arma. Poco più che trentenne, si accingeva ad assumere la laboriosa qualifica di maresciallo. Giunto all’epilogo di quella memorabile parentesi palermitana, Gerardo fu incaricato di dirigere la stazione del quartiere napoletano di S. Giovanni a Teduccio. Era il 1970 mentre in tutta la zona del Napoletano, si stava violentemente generando una sanguinaria contesa tra i clan di Cosa Nostra e il gruppo dei marsigliesi. La sinistra scintilla di quella brutale faida era riconducibile all’insana ambizione di contrastarsi per la conquista della torbida “via del tabacco”. Fin da subito, Gerardo, non scarto in alcun modo la possibilità che esistesse un perverso intreccio tra la disputa per la “via del tabacco” e il traffico di stupefacenti. I suoi sospetti come dimostreranno in seguito anche gli esiti di alcune indagini, non erano per nulla infondati. Nel frattempo, al di fuori della sua quotidiana e determinate attività di sottufficiale, Gerardo riuscì anche a coronare il brillante progetto di mettere su famiglia. Sposandosi con la moglie Anna divenne padre di Giusy, Annalina, Carmine e Marco. Quattro splendidi e amorevolissimi pargoletti che divennero i principali destinatari delle premure di quel loro coraggioso papà. Dopo aver magistralmente diretto la stazione di San Giovanni, Gerardo ricevette la convocazione per prestare servizio presso il Nucleo Investigativo della Locale Legione dei Carabinieri. Il capitano Roberto Conforti che all’epoca era stato appena nominato vice comandante del Nucleo Investigativo, aveva bisogno di un maresciallo che guidasse la sezione antidroga. Fresco di nomina, Conforti decise rapidamente di affidare proprio a Gerardo la guida di quella delicatissima sezione. Da quel preciso momento, Gerardo si propose di avviare un’attenta attività investigativa che potesse svelare tutti i sotterranei e sussistenti interessi che andarono ad accomunare le aspirazioni dei padrini di Cosa Nostra con quelle di una debuttante e del tutto spregiudicata Camorra. Continuando ad adoperarsi in favore dell’Arma, Gerardo arrivò anche a sviluppare un’approfondita e cronologica conoscenza delle tante vicende criminali che fin dall’inizio degli anni settanta, avevano gettato nel più lacerante sconforto l’intero hinterland napoletano. Era il solo che riusciva a ricordare i nomi d’innumerevoli camorristi ripercorrendo tutte le varie tappe che avevano caratterizzato la loro carriera criminale. Impiegando tutta la sua attendibile e nitidissima memoria, Gerardo non dovette ricorrere quasi mai alla consultazione dell’archivio. Al timone della squadra antidroga, si apprestò a predisporre una serie di adeguati interventi di polizia giudiziaria per reprimere gli occulti meccanismi su cui si poggiava l’imponente e appetibile mercato della droga. Gli effetti scaturiti da quelle precise operazioni risultarono alquanto sensazionali. Furono messe a segno decine e decine di capillari perquisizioni che sarebbero positivamente culminate con il sequestro di enormi quantitativi di droga. Senza accantonare la sua ostinata fermezza investigativa, Gerardo riuscì a identificare l’infausto canale che partendo dal Perù e approdando successivamente a Francoforte e Milano, movimentava il massiccio flusso d’importazione dell’eroina. Alcuni anni dopo, nel dicembre del 1974, Gerardo fu trasferito presso la stazione dei carabinieri di Afragola, dove prestò servizio fino al mese di luglio del 1975. Successivamente, ritornò ad essere assegnato alla locale Legione dei Carabinieri. Era la sera del cinque gennaio 1976, quando intorno alle ore 21:15, Gerardo si trovava accanto ad uno dei suoi quattro figlioletti nella piazza principale di Afragola. Pochi minuti dopo, tre killer al volante di una sfuggevole fiat 500, lo freddarono con otto pallettoni di fucile a canne mozze. Durante una sfrenata corsa per raggiungere l’ospedale “Loreto Mare” di Napoli, Gerardo si spegneva a soli trentanove anni per aver difeso la sua terra e tutto il nostro paese in nome di un inestimabile ideale. Si concludeva così la missione di un fedele e autentico servitore dello Stato. La prossima goccia di memoria cadrà il 20 gennaio … vi aspetto su “Melting Pot”!

Un cordiale saluto a tutti voi.

Pasquale Scordamaglia

06 – 01 – 2012

Nota: L’otto Gennaio del 2011, il maresciallo D’Arminio è stato insignito della medaglia d’argento al valore militare.

Fonti: http://domenico49.blog.espresso.repubblica.it/informabellizzi/2011/01/bellizzi-11-gennaio-2011-sabato-8-gennaio-%C3%A8stata-celebratanella-chiesa-dei-sacri-cuori-del-comune-di-afragola-una-santa-me.html

http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=325:5-gennaio-1976-afragola-na-ucciso-il-maresciallo-gerardo-darminio-che-stava-indagando-sui-legami-della-malavita-campana-sicula-calabrese&catid=35:scheda&Itemid=67

http://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Carabiniere/2006/01-Gennaio/Militaria/038-00.htm

http://ricerca.gelocal.it/lacittadisalerno/archivio/lacittadisalerno/2011/11/09/26wy10911_A6.txt.html

http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/action,viewer/Itemid,3/page,0009/articleid,1100_01_1976_0005_0009_15872137/

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1976_01/19760106_0005.pdf&query=gerardo%20d%27arminio

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1976_01/19760107_0017.pdf&query=gerardo%20d%27arminio


Il ricordo di Nicolò Azoti. Sindacalista onesto e battagliero nella Sicilia delle lotte contadine.

In foto: Il sindacalista Nicolò Azoti

Aspettando l’imminente entrata di un altro festoso e lieto Natale, desidero farvi conoscere una storia risalente agli anni del dopoguerra siciliano. La fotografia di una vita dove l’amore per la propria terra è ricongiunto ai più nobili ideali che un uomo possa custodire nel proprio cuore. Voglio partire da un numero che è equivalente alla stima di una tragica e apparentemente lontana carneficina. Il numero in questione è trentanove. Trentanove sindacalisti che dal 1945 fino al 1966, furono brutalmente abbattuti dal maledetto piombo delle squadriglie mafiose. Tra queste trentanove vittime innocenti della mafia, è presente anche il protagonista della storia che oggi ho deciso di raccontare a ognuno di voi. Nel triste elenco dei trentanove sindacalisti uccisi da Cosa Nostra, il nome di Nicolò Azoti si va ad aggiungere a quello degli altri trentotto sindacalisti che furono assassinati in nome dell’amore che provavano per la loro terra. Infatti, è proprio il sindacalista Nicolò Azoti (per tutti gli amici Cola), il principale personaggio di questa mia nuova goccia di memoria. Nicolò Azoti nacque il 13 settembre del 1909 nel piccolo paese palermitano di Ciminna. Cresciuto tra le attenzioni del padre Melchiorre Azoti e della madre Orsola, Nicolò era il quarto di sette figli. Nel 1917, otto anni dopo la nascita di Nicolò, la sorella maggiore Ninetta fu scelta da un centro ospedaliero per esercitare la professione di ostetrica nella limitrofa Baucina. Fu proprio in quell’occasione, che tutta la famiglia Azoti decise di trasferirsi a Baucina dove Nicolò avrebbe trascorso il resto della sua preziosa ed effimera vita. Un anno più tardi, nel 1918, Melchiorre si spense lasciando i suoi sette figli. Nicolò aveva appena nove anni. Fin dalla sua prima infanzia, Nicolò dimostrò di possedere una prodigiosa e naturale vocazione nel rivisitare e interpretare diverse melodie musicali da solista. Questa evidente predisposizione non passò inosservata al maestro Genovese che all’epoca era il direttore del corpo bandistico di Baucina. Infatti, per volontà del maestro Genovese, Nicolò entrò subito a far parte del corpo bandistico. Negli anni successivi, la vita di Nicolò fu allietata da un appassionante interesse per lo sport, per il canto e per la caccia. Dopo aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale e alla colonizzazione dell’Africa, iniziò a lavorare esercitando l’originale e appagante attività di ebanista. Ormai adulto, nel 1939, si unì in matrimonio con la giovane moglie, Mimì Mauro da cui ebbe due figli. Giuseppe nel 1940 e la tenerissima secondogenita Antonina, nel 1942; (quest’ultima, da circa vent’anni a questa parte, non ha mai smesso di testimoniare l’ammirevole impegno del padre con il chiaro intento di difenderne la memoria). Dopo il risolutivo declino del regime fascista, in Sicilia stava riaffiorando quell’urgente protesta democratica che si rifletteva tra le disperate battaglie di un combattivo, afflitto e rinascente movimento contadino. Fluivano gli anni disagiati del dopoguerra mentre un altrettanto preoccupante disagio, si abbatteva strenuamente sull’intera categoria dei lavoratori contadini. La mafia del feudo demoralizzava e sfruttava tutti quei lavoratori che intendevano riappropriarsi di ogni loro spettante e legittimo diritto. Uno dei primi a comprendere il progressivo radicamento di quella concreta esigenza democratica, fu proprio Nicolò. Da quel preciso momento, egli avvertì l’improrogabile bisogno di introdurre un vero e proprio contro – sistema che andasse a rimpiazzare le scellerate condizioni del consolidato e indecente sistema feudale. Continuando a svolgere la sua fantasiosa attività di ebanista, Nicolò divenne il segretario della Camera del lavoro di Baucina. Fin da subito, iniziò a promuovere l’applicazione di una serie di decreti legislativi che dal luglio del 1944 in avanti, erano stati proposti dallo storico Ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo. Nella moderna veste di sindacalista della Cgil, Nicolò sapeva benissimo che bisognava optare per un’ampia ed estesa aggregazione dei lavoratori e dei contadini. Affidandosi a questo basilare concetto, costituì a Baucina l’ufficio di collocamento con il coinvolgimento all’interno della Cigl, dei contadini e dei braccianti nullatenenti. Per apprezzare l’autentica valenza di quest’audace e risoluto sindacalista, ho potuto analizzare delle leggi che furono inserite nelle illuminanti e remote pagine dei decreti Gullo; quelle stesse identiche leggi, che Nicolò Azoti decise di adottare al fine di abbattere tutti gli insani vincoli che intercorrevano tra i contadini e gli ostili padroni dei latifondi. Attenendosi scrupolosamente alle varie disposizioni fissate dai decreti Gullo, Nicolò ebbe la grandiosa idea di ricorrere a due importantissimi provvedimenti che assunsero una grande centralità tra le richieste del movimento contadino. Il primo prevedeva l’applicazione di un criterio che mirava a razionalizzare la divisione dei prodotti agricoli. In modo particolare, la legge stabiliva che ai contadini fosse garantito almeno il 50% della produzione ottenuta dalle coltivazioni. Nicolò decise di applicare questa legge adottando un rivoluzionario parametro divisorio; ovvero, il 60% della produzione ai contadini e il restante 40% ai padroni terrieri. La seconda legge prevedeva l’impiego dei contadini tramite la creazione di numerose cooperative agricole che sarebbero dovute sorgere su tutti i terreni rimasti incolti o malcoltivati. Insomma, un’eccellente strategia che avrebbe ridato fruibilità ai latifondi consegnando ai contadini un’occupazione pulita e dignitosa. Ispirato da quest’ultima provvidenziale legge, Nicolò ebbe l’idea di fondare a Baucina una prima cooperativa agricola. Attraverso questa prima cooperativa, Nicolò offrì una gratificante occupazione ai contadini baucinesi che mai come allora, erano stanchi di continuare a sottoporsi alle spregevoli vessazioni del gabellato mafioso. Nel corso di quei convulsi e grigi anni del dopoguerra, la minaccia della mafia, si manifestava con estrema ferocia nei confronti di chi si batteva per i sacrosanti diritti dei contadini. Tra il quarantacinque e il quarantasei, le aggressioni e gli assalti alle varie Camere del Lavoro, erano sempre più all’ordine del giorno. I dirigenti sindacali rimasero coinvolti in un’intollerante sequela di vili atti intimidatori e riprovevoli pestaggi. Violente avvisaglie che si trasformarono rapidamente in omicidi. Quelle prepotenti avvisaglie furono riservate inevitabilmente anche a Nicolò. Dopo averlo invitato a mollare tutto e non essere riusciti in alcun modo a corromperlo, i gabelloti passarono subito alle minacce. Con una sfacciata arroganza gli dissero: “Tu ci stai rovinando, ma te la faremo pagare molto cara”. Nicolò da uomo onesto e coraggioso qual era, non intendeva arrestare la corsa del suo palese e intrepido impegno sociale. La sera del 21 dicembre del 1946, il piombo delle lupare mafiose deturpava la disillusa e incessante battaglia di quel giovane sindacalista. Erano circa le 23:00 quando insieme a due amici, Nicolò stava percorrendo la strada che lo divideva dalla sua adorata dimora. Ad aspettarlo c’erano Mimì e i suoi due figlioletti affamati d’amore. Nel corso di quel funesto tragitto, alcuni uomini si avventarono barbaramente contro di lui. Bastarono cinque colpi di pistola alle spalle per sancire la crudele sentenza di Cosa Nostra. Due giorni più tardi, il 23 dicembre del 1946, Nicolò si spense tra le perenni lacrime della sua famiglia dopo una vana permanenza all’Ospedale Civico di Palermo. Augurando a tutti voi di vivere un indimenticabile Natale e un felicissimo Anno nuovo, vi saluto con una viva e necessaria speranza. La speranza che anche questa storia, non finisca per essere inghiottita dal vortice di una perseverante e rinnovata smemoratezza collettiva. La prossima goccia di memoria cadrà il sei gennaio 2012. Auguri di Buon Natale e felice anno nuovo a tutti voi!

Pasquale Scordamaglia

23 – 12 – 2011

 In Video: Un estratto in cui Antonina Azoti (figlia del sindacalista assassinato dalla mafia), legge un breve passo del suo libro autobiografico “Ad Alta Voce – Il riscatto della memoria in terra di mafia”.

Fonti: http://www.nomafiebiella.it/sc_azoti.php

http://www.cittanuove-corleone.it/La%20Sicilia,%20A.%20Azoti%20-%20La%20mafia%20ha%20ucciso%20anche%20mio%20padre%2024.12.2010.pdf

http://www.cittanuove-corleone.it/La%20Sicilia,%20Azoti%20annullato%20il%20Premio%2017.12.2006.pdf

http://eliocamilleri.wordpress.com/2009/12/20/il-cappottino-rosso/

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/03/13/antonina-azoti-il-coraggio-della-memoria.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/22/racconto-mio-padre-vittima-dimenticata.html

http://www.centroimpastato.it/publ/online/movimento_contadino.php3

http://www.centrosocialesaliano.it/gullo.htm

http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=392:23-dicembre-1946-baucina-pa-assassinato-nicolo-azoti-segretario-della-camera-del-lavoro-&catid=35:scheda&Itemid=67

https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:LTB0j1mPys0J:www.istitutogramscisiciliano.it/motore_web/file2.php/Nicol%25C3%25B2%2520Azoti.pdf%3Fid%3D42%26nw%3D1%26Nicol%25F2%2520Azoti.pdf+nicol%C3%B2+azoti&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEESixv04rO4L44-Q-AE3QXgNOtVxQQ1OL50dml_f0K15V4f3h3AcO7dn1icZxIJjkKiUHdWJZ3s_GrYQQ9mwn0r67AcVgrJU6j6w9syBj1qcRm4K0IsaGflxasxHtwPmQw0rhNlGc&sig=AHIEtbRuRcC9g4VXcwPJDk4a8qV9i-QpZg


Trentuno anni senza il sogno del caro John. Indimenticabile poeta e voce leggendaria del sentimento pacifista.

In foto: John Lennon e Yoko Ono nei primi anni settanta; 

Carissimi visitatori di Melting Pot, è incredibilmente emozionante potervi raccontare una storia che è ben nota a tutto il mondo. La storia di un artista che con le sue esclusive abilità di musicista e poeta, divenne il principale interprete delle comuni aspirazioni di un’intera generazione. Si tratta del mitico John Lennon. Nato il nove ottobre del 1940 in una Liverpool angosciata dagli effetti della seconda guerra mondiale, John dimostrò molto prematuramente di possedere delle evidenti capacità creative e un carattere colmo di tenera ribellione. “Il rock n’ roll era reale; tutto il resto era irreale; quando avevo quindici anni, era l’unica cosa tra tutte che potesse arrivare a me”. Correva l’anno 1970 quando già trentenne, John ricordava così la sua primissima adolescenza. Infatti, oltre ad avere una grandiosa bravura nel disegno e nella poesia, John avvertiva una fortissima attrazione per la musica rock. Collezionando un’innumerevole quantità di dischi, si lasciò rapidamente conquistare da tracce come “Heartbreak Hotel” di Elvis Presley o “Rock Island Line” di Lonnie Donegan. Una chitarra acustica offerta dalla premurosa zia Mimi, coronò il suo primo approccio con la musica. Era il 1956 quando durante il corso di una festa studentesca, John conobbe un quindicenne rapito dalla sua stessa passione; il futuro Beatle Paul McCartney; Grazie alle esaurienti conoscenze detenute da Paul, John perfezionò rapidamente le sue abilità di chitarrista. Poco tempo prima di incontrare Paul, decise di far nascere una band tra le file studentesche di Liverpool: I Quarrymen. Paul entrò a far parte del gruppo nella lontana estate del 1957. Un anno dopo, nel 1958, i Quarrymen si arricchirono della presenza di un promettente George Harrison. All’entrata di George nella band, seguì anche l’arrivo del batterista Pete Best. In seguito a interminabili esibizioni tra i locali di Liverpool e Amburgo, qualcosa stava cambiando nelle vite di quei giovani musicisti. Immersi negli albori degli anni sessanta, John e gli altri membri dei Quarrymen, diedero un nuovo appellativo al gruppo. Da Quarrymen diventarono i The Beatles. Un paio di anni dopo, nel 1962, la formazione dei Beatles si definì con la sostituzione di Pete Best. Direttamente da Liverpool, subentrò il batterista inglese Ringo Starr. Aiutato dalla sua disarmante ironia e da uno sfacciato spirito anticonformista, John fu eletto fin da subito come il leader carismatico dei Beatles. Nelle sue pungenti e imprevedibili battute, erano spesso racchiuse delle vere e proprie critiche nei confronti del potere istituzionale. D’altronde John era un inguaribile idealista che attraverso la libertà incondizionata delle sue parole, rispecchiava l’essenza più pura dell’anarchia. A testimoniare questa sensazionale spigliatezza ironica, c’è una famosissima battuta che pronunciò durante un concerto al Royal Variety. A un certo punto John si rivolse direttamente al pubblico dicendo: Per la nostra ultima canzone vi chiedo un aiuto; le persone nei posti economici possono applaudire… gli altri possono agitare i loro gioielli”. La chitarra acustica ricevuta a soli quindici anni dalla zia Mimi, John decise subito di rimpiazzarla con una Rickenbacker 325 a tracolla. Si trattava di una chitarra ritmica che John utilizzò per tutta la fioritura della Beatlesmania. All’interno dei tredici album che realizzò dal 1963 fino al 1970 con gli altri tre Beatle, sono contenuti brani come la particolarissima Norwegian Wood. Presente nell’album Rubber Soul del 1965, questo pezzo fu scritto e composto dal duo Lennon – McCartney con l’apporto melodico del Sitar (uno strumento indiano che durante le registrazioni del brano, fu suonato da George Harrison). Inoltre, sempre per l’album Rubber Soul, John realizzò l’autobiografica Nowhere man e la riflessiva Girl. Attraverso il testo di quest’ultimo brano, John manifestava il suo desiderio di ricongiungersi a un’ipotetica donna ideale. Un desiderio che si consoliderà qualche anno dopo, con la conoscenza della futura compagna Yoko Ono. Negli album che furono successivamente concepiti dai Beatles, John realizzò delle particolarissime sonorità psichedeliche servendosi della sua incommensurabile e rivoluzionaria creatività. Ascoltando “Tomorrow Never Knows”, “I’m Only Sleeping”, “Lucy in the Sky with Diamonds”, “Being for the Benefit of Mr. Kite”, “I am the Walrus”, “Strawberry fields forever”, “Happiness is a Warm Gun”, “Sexy Sadie”, “Come Together” e tantissime altre straordinarie realizzazioni di John, l’ascoltatore viene conquistato da un mix vincente di sorprendenti sonorità psichedeliche e attraenti armonie orientali. Una miscela che andava ben oltre il classico rock e la tradizionale pop music. Un’altra produzione firmata da John e che comparve anche nella tracklist nel cosiddetto White Album del 1968, era Julia. Servendosi della sua morbida voce e di una chitarra acustica, John dedicò questa canzone alla madre che a causa di un tragico incidente stradale, si spense nel 1958. Dopo la pubblicazione dell’ultimo album che prese il nome dalla celeberrima Let it be, John decise di comunicare a Paul, George e Ringo, la sua volontà di allontanarsi definitivamente dal gruppo. Il motivo per cui John prese questa scelta era sicuramente attribuibile a un preciso bisogno; ovvero, quello di vivere una propria esperienza individuale che lo portò a prendere le distanze non solo dai Beatles, ma anche da tutto ciò che apparteneva ai gloriosi e ingannevoli anni sessanta. Abbandonando i panni di Beatle e indossando quelli di solista, John divenne il principale portavoce del sentimento pacifista ma soprattutto, il simbolo di una rivoluzione musicale che apparve del tutto distinta da quella attuata nel corso della Beatlesmania. Grazie all’incantevole ed eclettico tocco artistico di John, il rock assimilò tutti i sentimenti legati a un ricorrente e meraviglioso sogno. Quel sogno pacifista che John raffigurò impeccabilmente nell’incalzante euforia di Give Peace a Chance e nel profondo significato di un altro encomiabile capolavoro; la simbolica e intramontabile Imagine. Dal 1970 fino al 1980, il percorso artistico di John, venne impreziosito dalla composizione di gradevoli successi tra cui Working Class Hero, Mother, God,  Power to the People, Jealous Guy, It’s so Hard, Oh my Love, Happy Xmas (War Is Over), Mind Games, Whatever Gets You Thru the Night, #9 Dream, Beautiful boy, Woman, Watching the Wheels e (Just Like) Starting Over. Più efficaci delle parole sigillate in una dettagliata e minuziosa biografia, questi frammenti musicali restano la migliore testimonianza della vita di John. Intorno alle 22:51 dell’otto dicembre di trentuno anni fa, John e Yoko si stavano avvicinando verso l’ingresso del Dakota Building; un lussuoso palazzone che si affacciava sul Central Park all’altezza della 72ma strada. Era proprio lì che John e Yoko, trascorrevano la loro riservata vita familiare. Improvvisamente, l’incontrollata follia di un fans proveniente dall’Honolulu, si accanì irrazionalmente contro John. Cinque assurdi proiettili raggiunsero John che ebbe solo il tempo di scandire queste tre ultime disperatissime parole“I was shot” (mi hanno sparato). A distanza di trentuno anni da quell’assurda e paradossale morte, John continua a consegnarci l’integrità delle sue indelebili e universali parole. Grazie John! La prossima goccia di memoria cadrà il ventitré dicembre …. vi aspetto su “Melting Pot”!

 Un calorosissimo saluto a tutti voi!

Pasquale Scordamaglia

09 – 12 – 2011

Fonti: http://it.wikipedia.org/wiki/John_Lennon

http://it.wikipedia.org/wiki/Rubber_Soul

http://digilander.libero.it/atavacron/images/lennon.html

http://archivio.unita.it/archivio/navigatore.php?page=1&dd=10&mm=12&yy=1980&ed=nazionale&url=http://82.85.28.102/cgi-bin/showfile.pl?file=archivio/uni_1980_12/19801210_0001.pdf

http://archivio.unita.it/archivio/navigatore.php?page=15&dd=10&mm=12&yy=1980&ed=nazionale&url=http://82.85.28.102/cgi-bin/showfile.pl?file=archivio/uni_1980_12/19801210_0015.pdf

http://archivio.unita.it/archivio/navigatore.php?page=3&dd=10&mm=12&yy=1980&ed=nazionale&url=http://82.85.28.102/cgi-bin/showfile.pl?file=archivio/uni_1980_12/19801210_0003.pdf

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1990_12/19901208_0021.pdf&query=john%20Lennon

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1988_12/19881208_0023.pdf&query=john%20Lennon



Il tragico destino di Biagio Siciliano; vittima innocente e indiretta di quel terrore mafioso che assalì la città di Palermo. Travolto dallo sbando accidentale di un’Alfetta di scorta, la mattina del 25 novembre 1985, il povero Biagio morì sul colpo.

In foto: Biagio Siciliano (Fonte: http://www.scuolabiagiosiciliano.it/)

Un destino segnato dalle tremende conseguenze del terrore mafioso; dopo aver riflettuto a lungo sulla tragica sorte del giovanissimo Biagio Siciliano, ho pensato a questa frase che a mio parere, appare una delle più plausibili per rilevare la causa principale di una straziante e del tutto inaspettata tragedia. La tragedia che la mattina del 25 novembre 1985, irruppe su una Palermo stanca di subire la violenza crescente di una criminalità spietata e sanguinaria. Quella mattina, il freddo autunnale di novembre era allietato da un sole nostalgico di primavera. Era lunedì e come di consueto, molti ragazzi avrebbero preso l’autobus per andare a scuola. Tra questi ragazzi c’era anche il protagonista di questa triste storia che oggi voglio far conoscere a tutti voi. Con i suoi quattordici anni e un viso tipicamente adolescente, Biagio si era iscritto al Liceo Classico “Giovanni Meli”di Palermo. In particolare, Biagio frequentava il quarto ginnasio della sezione D. Viveva con la sua famiglia nel paese di Capaci. Come faceva abitualmente ogni mattina, anche quell’incancellabile lunedì, Biagio salì a bordo della solita corriera che, analogamente a tantissimi altri giovani pendolari, gli permetteva di raggiungere Palermo per svolgere l’appagante attività di studente. Infatti, tra le tante passioni che vivacizzavano la vita di questo splendido quattordicenne, era presente anche un regolare e autentico amore per lo studio. Erano le 13:30 quando al termine dell’ultima ora di lezione, il suono della campanella segnava la fine di un’altra giornata scolastica. Dopo essere usciti dall’istituto, i liceali raggiunsero la fermata più vicina per attendere l’autobus che li avrebbe riportati dalle loro famiglie. Così si radunarono tutti alla pensilina della fermata di Piazza Croci che, distando circa dieci metri dal portone del liceo, era adiacente alla vicina e trafficata via Libertà. Per riempire quei minuti di attesa trascorsi alla fermata, i ragazzi spesso discutevano dei giudizi conseguiti nelle ultime interrogazioni o di quello che era in programma per il giorno dopo. Tra le parole di quei ragazzi che cominciavano a osservare in modo più maturo la vita, si manifestava un’atmosfera triste e ordinaria per la città di Palermo; il suono delle sirene e l’esasperato rombo emesso dai motori delle auto blindate. Unito ai liceali assorti nell’aspettare l’autobus in Piazza Croci, c’era pure Biagio. Erano le 13:35 quando in piena ora di punta e a tutta velocità, in Via Libertà giunse un corteo di tre auto accompagnate dall’immancabile risonanza delle sirene. Passarono dalla corsia preferenziale che oltre agli autobus e ai taxi, era anche riservata alle auto di scorta. Quel terzetto formato da due gazzelle e un auto blindata, per gli studenti rimaneva una visione quasi familiare. Chissà quante altre volte le avevano viste passare da lì. Quella volta però, qualcosa andò storto. Le tre auto proseguirono il loro cammino verso Piazza Croci. Simili a tre irraggiungibili saette, superarono il semaforo che dal verde stava per passare al rosso. Improvvisamente, una Fiat Uno si trovò sulla traiettoria della prima auto del corteo. L’autista dell’Alfetta non riuscì a evitare il peggio mentre il conducente alla guida dell’utilitaria, avanzava inesorabilmente in contro senso. Con tutta la sua sfrenata velocità, l’Alfetta andò a scontrarsi contro la Fiat Uno per poi sbalzare su un’altra macchina che era ferma a uno dei semafori di Via Libertà. Negli attimi immediatamente successivi, quella folle corsa si concluse nel più drammatico dei modi. L’Alfetta andò a schiantarsi proprio sulla fermata di Piazza Croci dove ad aspettare la corriera, c’erano in gran parte liceali provenienti dal “Meli”. Come deboli canne in preda al vento, diversi studenti furono falciati dallo sbando fatale di quella gazzella assassina. Un ragazzo fu scaraventato contro un muro. Nelle vicinanze della fermata, erano sparse decine di cartelle e innumerevoli quaderni. Sotto la pensilina giacevano i corpi di una decina di ragazzi sanguinanti che con molta probabilità, non ebbero neanche il tempo necessario per capire cosa stava succedendo. E poi c’era un ragazzo che, con il suo viso fanciullesco e i suoi occhi stracolmi di speranza, era rimasto schiacciato sotto le ruote di quella gazzella. Questo ragazzo era Biagio Siciliano. Purtroppo, una disperatissima corsa fino all’ospedale, non riuscì a salvarlo dal sopraggiungere di un’immediata e inaccettabile morte. Nell’auto blindata che era al centro del corteo, c’erano due dei giudici istruttori dello storico pool antimafia; Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Entrambi si resero conto che, quel terribile incidente, non poteva essere catalogato soltanto come una sfortunata e sporca fatalità. Dietro quella terribile fatalità, si nascondeva il sintomo estremo di un vero e proprio malessere sociale che, sotto l’occhio oscuro di Cosa Nostra e dei suoi spregevoli complici, stava lacerando la città di Palermo estendendosi anche sul resto della Sicilia. Quell’angosciante malessere che, giorno dopo giorno, omicidio dopo omicidio, assumeva le sembianze di una convivenza “forzata” con il terrore e la paura. Nei giorni consecutivi alla tragedia del 25 novembre, una volta usciti dalle aule bunker nelle quali lavoravano, Borsellino e Guarnotta, mostrarono tutta la loro vicinanza ai ragazzi che erano stati coinvolti nell’incidente e ovviamente, anche ai loro genitori. Nel frattempo, un secondo morto si aggiungeva alle vittime di quell’assurda strage. Era la povera Giuditta Milella che aveva diciassette anni e, esattamente come Biagio, frequentava il liceo classico “Meli”. Si spense il tre dicembre del 1985 dopo un travagliato ricovero presso l’ospedale Civico di Palermo; una settimana dopo l’incidente alla fermata di Piazza Croci. Quest’articolo è dedicato anche a lei che, inconsapevolmente, condivise lo stesso sciagurato destino del povero Biagio. Oggi ricorrono esattamente ventisei anni da quel cupo 25 novembre 1985. Apriamo una porta della nostra memoria anche per loro! La prossima goccia di memoria cadrà il nove dicembre… vi aspetto su “Melting Pot”! Un caro saluto a tutti voi!

Pasquale Scordamaglia

25 novembre 2011

Fonti: http://www.scuolabiagiosiciliano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5&Itemid=22

http://www.scuolabiagiosiciliano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=42&Itemid=35

http://www.livesicilia.it/2009/11/25/biagio-giuditta-il-meli-e-lultimo-giorno-di-scuola/

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1985_11/19851126_0001.pdf&query=

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1985_11/19851126_0020.pdf&query=

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1985_11/19851127_0002.pdf&query=biagio%20siciliano

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/11/26/palermo-auto-di-scorta-al-giudice.html

http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/action,viewer/Itemid,3/page,0009/articleid,1009_01_1985_0262_0009_14109434/

Libro: “Paolo Borsellino” di Umberto Lucentini – Edizioni San Paolo – Capitolo n°6 pagine 113, 114, 115.


Il ricordo di Michele Granato; un appuntato che emigrando dalla Sicilia fino alla capitale, non sfuggì alla furia omicida delle BR. Con cinque colpi di pistola, il 9 novembre del 1979, fu vigliaccamente assassinato da un commando di cinque persone nella borgata romana di Casal Bruciato.

In foto:  l’appuntato Michele Granato

Carissimi visitatori di Melting Pot, stavolta vi racconterò una storia che, fino a un paio di settimane fa, non conoscevo neanche io. Si tratta della storia di un ragazzo siciliano che, appena diventato maggiorenne, emigrò dal proprio paese arruolandosi nella capitale come poliziotto. Purtroppo, dopo sei anni di attività tra un commissariato e l’altro, l’assurda e folle ideologia sostenuta in quegli anni dalle Brigate Rosse, travolse anche questo giovane ragazzo. Il suo nome era Michele Granato e oggi, a distanza di oltre un trentennio dalla sua morte, questa storia ci può far ripercorrere uno dei fenomeni che ha segnato profondamente il nostro paese. Il fenomeno al quale faccio riferimento, è la cosiddetta “Strategia della tensione” che ebbe inizio con la nascita delle Brigate Rosse in un continuo susseguirsi di sequestri, ferimenti e non pochi omicidi. Riflettendo su tutto ciò, mi sento di dover dedurre che quell’insensato sistema ambiva a mescolare due elementi abbastanza contrapposti tra loro; la violenza e la politica. Dopo aver aperto questa necessaria parentesi sugli anni di piombo, penso sia doveroso e altrettanto necessario farvi conoscere la storia dell’agente Michele Granato. Michele Granato, classe 1955, nacque a Lercara Friddi, un piccolo paese agricolo situato nella provincia di Palermo dove il migrare di chi cercava lavoro era un fenomeno triste e interminabile. Dopo aver svolto per quattro anni il lavoro di muratore ed essersi iscritto anche alla federazione giovanile comunista di Lercara, intorno al 1974, Michele decise di emigrare a Roma con il preciso intento di arruolarsi in polizia. Per Michele che era l’ultimo di sei figli, ambientarsi nella metropoli romana non fu assolutamente difficoltoso. Appena giunto nella capitale, dopo aver frequentato la Scuola Allievi di Alessandria, Michele iniziò la sua carriera di giovane poliziotto presso il commissariato di Ponte Milvio e, dopo alcuni anni, fu trasferito nella sede del quartiere romano di San Lorenzo. Proprio in quel periodo a Michele fu assegnato un incarico che lui però, trovava piuttosto distante da quelle che erano le sue ambizioni. Infatti, appena insediatosi in quel commissariato, Michele dovette svolgere il servizio di vigilanza davanti all’obitorio. Fortunatamente, qualche anno dopo, nel 1977, raggiungendo uno dei traguardi più importanti della propria vita, Michele approdò nella polizia giudiziaria del medesimo commissariato di San Lorenzo. Fin da subito, Michele dimostrò di detenere notevoli capacità nella veste di appuntato. Grazie a quel lavoro che sembrava calzargli a pennello, Michele raccolse rapidamente anche la fiducia di superiori e colleghi. Indossando abitualmente jeans e maglietta, Michele perlustrava tutta la zona di San Lorenzo spostandosi anche nel vicino quartiere di Casal Bruciato. Ogni volta che avvistava dei ladri o degli scippatori si lanciava spesso a inseguirli da solo e senza alcun timore. All’indomani del suo assassinio, i colleghi che avevano conosciuto questo coraggioso e audace agente di polizia, lo descrissero come un duro che non aveva paura di niente. Un ragazzo che, durante lo svolgimento di tutte le perquisizioni, non si tirava mai indietro dallo sfondare le porte delle varie abitazioni da esaminare. Anche i ladri che si trovarono a dover fare i conti con la buona condotta dell’appuntato Granato, definivano Michele come una persona che svolgeva nel rigore più assoluto il proprio lavoro. Insomma, un vero duro che, con la sua proverbiale fermezza e il suo inesauribile coraggio, fronteggiava il quotidiano susseguirsi di una criminalità inarrestabile ed evoluta. In quegli anni, a San Lorenzo e a Casal Bruciato, stava accadendo qualcosa che, a differenza di uno scippo o di una comune rapina, si diffondeva con estrema ferocia tra quei due quartieri. Nello specifico, si trattava dei cosiddetti gruppi “autonomi” che, collegati al movimento eversivo delle Br, non si limitavano solo a eseguire delle gambizzazioni o a sfasciare qualche vetrina. Cercando un dissennato e illogico consenso tra le frange della criminalità locale, i vertici dell’ala militarista delle Br, risposero allo Stato con l’eliminazione fisica di tantissimi poliziotti. Una di queste vittime era il sottoufficiale di Pubblica Sicurezza Settimio Passamonti che, il 21 aprile del 1977, proprio nella zona di San Lorenzo, fu falciato dal piombo di un accanito gruppo di autonomi. Due anni dopo, la mattina del nove novembre 1979, lo stesso feroce trattamento fu riservato al giovane Michele. Molti mesi prima di quel fatale giorno, Michele conobbe una giovanissima ragazza che viveva a Casal Bruciato e frequentava l’Istituto tecnico “Villa Paganini”; il suo nome era Ornella Ornelli. Uniti da un intenso e coinvolgente amore, Michele e Ornella decisero subito di fidanzarsi. Dal mese di settembre del ‘79, quasi ogni giorno, Michele aspettava che Ornella uscisse da scuola per darle un passaggio fino a casa. Come faceva già da due mesi, anche quel fatidico nove novembre, Michele la accompagnò a Casal Bruciato in via Giuseppe Donati. Improvvisamente, mentre Michele stava accompagnando la sua giovane fidanzata fino all’androne del palazzo, un commando formato da cinque terroristi sparò cinque proiettili il cui scoppio fu affievolito dall’uso del silenziatore. Con un’astuta e dannatissima precisione, i killer portarono a termine il loro lavoro. Inesorabile, ogni proiettile andò a scagliarsi contro l’inerme corpo di Michele. In modo vigliacco e feroce le Br avevano compiuto la loro ennesima vendetta contro un ragazzo di ventiquattro anni e il suo straordinario spirito di servizio. All’indomani dell’assassinio del giovane Michele, intorno alle 15:30 del pomeriggio, una telefonata sopraggiunse nella redazione di un quotidiano locale; erano i terroristi che, si rivolsero al redattore con queste poche parole: “Siamo le BR, andate a guardare in un cestino dei rifiuti di Via Torino”. Dentro quel cestino, infatti, si trovava il volantino con l’immancabile stella a cinque punte e in fondo la firma “brigate rosse, colonna romana”. Leggendo queste righe, molti di voi si chiederanno che cosa avesse fatto di male questo ragazzo per finire nel mirino dei nuclei brigatisti: nulla a parte quello che era il suo legittimo dovere. Sostanzialmente, le Br decisero di eliminare Michele perché pochi giorni prima di essere freddato, quest’ultimo, aveva tratto in arresto uno dei maggiori esponenti dei circoli autonomisti che si annidavano a San Lorenzo. Il 24 settembre del 2004, l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ai familiari dell’agente Granato, ha consegnato la medaglia d’oro al valore civile. Oggi, a distanza di trentadue anni esatti dalla sua morte, ciascuno di noi, può fare un semplice e preziosissimo dono all’appuntato Granato; ovvero, quello di difendere dall’irrefrenabile scorrere del tempo, la sua lodevole vita. La prossima Goccia di memoria cadrà il 25 novembre…. vi aspetto su “Melting pot”!

Pasquale Scordamaglia

                                                                                                                         11 novembre 2011

Fonti: http://archivio.unita.it/

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1979_11/19791110_0005.pdf&query=michele%20granato

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1979_11/19791110_0010.pdf&query=michele%20granato

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1979_11/19791111_0013.pdf&query=michele%20granato

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1980_11/19801109_0010.pdf&query=michele%20granato

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1982_03/19820303_0009.pdf&query=michele%20granato

http://www.memoria.san.beniculturali.it/web/memoria/protagonisti/scheda-protagonista?p_p_id=56_INSTANCE_V64e&articleId=18823&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&groupId=11601&viewMode=normal&tag=g


Giovanni Spampinato; Storia di un giovane cronista innamorato della verità tra l’ipocrisia di chi si finse sordo e cieco. A distanza di trentanove anni dalla sua morte, si rinnova il ricordo di Giovanni Spampinato.

In foto: La prima pagina che il quotidiano L’Ora di Palermo, dedicò a Giovanni Spampinato il giorno dopo la sua morte.

“Come fanno gli altri, che vivono accanto a me, a fingere di non vedere quel che vedo io?”; tra il finire degli anni sessanta e l’inizio di un nuovo decennio in arrivo, di fronte all’ostinata indifferenza dei suoi concittadini, un giovane ventenne formulava dentro di sé questa precisa domanda. Questo giovane ragazzo è il protagonista della storia che, con tutto il cuore, vi voglio raccontare in questo secondo articolo della mia rubrica. Si tratta di Giovanni Spampinato che per via del suo straordinario impegno di corrispondente e di scaltro osservatore, la sera del 27 ottobre 1972 fu barbaramente assassinato a colpi d’arma da fuoco. Nato a Ragusa il sei novembre del 1946, Giovanni aveva precocemente dimostrato di essere particolarmente sensibile alle problematiche sociali del suo tempo che pensandoci, non erano per nulla differenti, da quelle che permangono ancora oggi nel nostro paese. Provando un forte senso di repulsione nei confronti del fascismo, Giovanni era ancora un vero e proprio adolescente quando senza mostrarsi in alcun modo titubante, iniziò a far parte del movimento antifascista Nuova Resistenza. Il 25 aprile 1963 divenne una data memorabile per Giovanni; infatti, era esattamente il 25 aprile del 1963, quando in occasione della tradizionale festa della Liberazione, Giovanni tenne il suo primo comizio per Nuova Resistenza. All’epoca aveva solamente diciassette anni e un bagaglio infinito di valori da difendere. Si trattava di valori che più che apparire come ascrivibili ai principi di un partito o di più correnti politiche, rispecchiavano le regole fondanti della democrazia. C’è un bellissimo episodio della vita di Giovanni che risale al periodo del rivoluzionario Sessantotto e che, ho avuto la possibilità di conoscere, attraverso le parole di suo fratello Alberto. Ci tengo a raccontarvi brevemente questa esperienza che andò ad arricchire ulteriormente la vita di Giovanni Spampinato. In seguito, all’avvento del terremoto che tra il 15 e il 16 gennaio del 1968 raggiunse una rilevante area della Sicilia Occidentale e distrusse numerosi comuni appartenenti al comprensorio denominato Valle del Belice, Giovanni spinto dalla sua istintiva generosità, decise di voler partecipare come volontario alle operazioni di soccorso che si svolsero nei luoghi più colpiti dal sisma. Questo bellissimo ricordo del fratello Alberto, ci fa capire che oltre a provare una reale e costante attenzione per l’impegno civile, Giovanni custodiva anche dentro di sé, un’inesauribile dose di solidarietà e di altruismo nei confronti degli altri. Alcune ore di tutte le sue giornate, le riservava immancabilmente a illuminanti e coinvolgenti letture. Dopo gli anni trascorsi al Liceo, Giovanni decise di studiare Lettere e Filosofia all’Università di Catania mentre qualche anno dopo, nel 1969, conobbe Vittorio Nisticò che all’epoca era il direttore della testata giornalistica “L’Ora di Palermo”. Giovanni che aveva già all’attivo diverse esperienze nel campo dell’informazione locale, da quel momento entrò a far parte dello staff giornalistico dell’Ora come corrispondente. Alla provincia di Ragusa era stato affibbiato un nome abbastanza strano. Ragusa, infatti, era notoriamente identificata con il nome di provincia “babba” o “scema” perché, a differenza di tutte le altre provincie siciliane, quel territorio si presentava totalmente risparmiato dalla presenza d’infiltrazioni mafiose e di pericolosi gruppi eversivi. Purtroppo, l’etichetta di territorio tranquillo e pacifico, si discostava parecchio da alcune scomode verità che i ragusani in primis, ignorarono difendendo la precaria tranquillità di quel glorificato capoluogo di provincia. A segnalare quelle insidiose e inenarrabili verità, c’era però, un ragazzo di venticinque anni che portava sempre degli occhiali da vista con montatura bianca e due grosse lenti scure alla Elvis Costello per via di un’accentuata forma di miopia. Questo ragazzo era Giovanni Spampinato. Dal 1969 fino al 1972, attraverso le pagine dell’Ora, Giovanni racconto della presenza di super-latitanti dell’eversione nera che circolavano indisturbati per la provincia di Ragusa nella totale compiacenza del potere locale. Inoltre, nelle sue inchieste scrisse anche della presenza di navi che, provenienti dalla Grecia, approdavano lungo le coste siciliane per lo svolgimento del contrabbando di sigarette, droga e armi. Giovanni che aveva la stoffa del giornalista, comprese chiaramente che c’era un filo conduttore tra le azioni violente dei neofascisti locali e il frequente sbarco di quelle navi stracariche di armi. Giovanni in particolare, viveva il malessere di assistere a un’intera comunità che si spacciava per cieca e per sorda senza riflettere coscienziosamente su quello che stava accadendo a Ragusa. Infatti, la gente di Ragusa vedeva le stesse cose che osservava Giovanni, ma a differenza sua, continuava a dimostrarsi colpevolmente distaccata dal riconoscere quelle schegge di verità. In siciliano stretto molte persone, iniziarono a fargli la solita domanda di rito: “Ma cu tu fa ffari?” Chi te lo fa fare?. Nonostante tutto, desideroso anche di stimolare i colleghi delle altre testate locali a non distogliere lo sguardo da quelle torbide realtà, Giovanni continuò ad andare avanti come un fiume in piena. Andò avanti anche dopo il 26 febbraio del 1972, quando presso un sentiero di campagna abbastanza impervio da raggiungere, una contadina trovò il cadavere di Angelo Tumino. Giovanni essendo un ricercatore scrupoloso della verità, si attivò fin da subito con il chiaro intento di costruire minuziosamente lo scenario nel quale era maturato questo cruento e misterioso delitto. Il 29 febbraio 1972, pubblicò il suo primo articolo dedicato al delitto Tumino con un titolo che era un vero scoop: “Sotto torchio il figlio di un magistrato”.Il figlio del magistrato al quale faceva riferimento Giovanni in quell’articolo, non era altro che il figlio del Presidente del Tribunale cittadino; il suo nome era Roberto Campria. Sette mesi dopo, il 27 ottobre 1972,  Roberto Campria si mise in contatto con la famiglia Spampinato in modo da organizzare un incontro con Giovanni. In realtà, si trattava di una trappola che Campria aveva pianificato per eliminare quel giovane che eticamente e professionalmente, svolgeva il ruolo di giornalista. Quell’incontro si svolse con un epilogo assurdo e tragico. La sera del 27 ottobre 1972, mentre Giovanni parlava con Campria a bordo della sua cinquecento bianca, quest’ultimo, estraendo da un borsone due pistole, sparò sei proiettili contro Giovanni che ahimè, si spense prima ancora di raggiungere l’Ospedale Civile. Campria da carnefice era diventato quasi una vittima con l’insostenibile scusante, di aver ucciso quel giornalista perché non sopportava più le sue provocazioni. In realtà, quelli di Giovanni erano appunti d’incrollabile verità che molti paradossalmente fecero passare per provocazioni o addirittura per menzogne. La storia di Giovanni Spampinato a mio parere, appare come uno straordinario monito di giustizia e di coraggio che è necessario propagare in tutto il paese ma soprattutto, tra le nuove generazioni. La prossima Goccia di memoria cadrà l’11 novembre….vi aspetto su “Melting pot”!

Pasquale Scordamaglia

In video: inchiesta drammaturgica sul caso Spampinato di Roberto Rossi e Danilo Schininà.

 Fonti: http://montagna-longa.noblogs.org/post/2006/12/21/giovanni-spampinato-tratto-da-gli-insabbiati-di-luciano-mirone-1-parte/

http://www.giovannispampinato.it/

http://www.giovannispampinato.it/attachments/066_Il%20cronista%20che%20scriveva%20tutto.pdf

http://www.corriere.it/cronache/08_giugno_01/distefano_giallo_d8efa420-2fb4-11dd-a286-00144f02aabc.shtml


Vi presento “Gocce di Memoria” Una rubrica nata per rispolverare il valore della legalità, dell’impegno civile e dell’amore, attraverso le storie di quell’Italia e di quel mondo che non ci hanno mai abbastanza raccontato.

Con tanto entusiasmo e un pizzico di emozione, oggi vi presenterò ufficialmente la mia rubrica. Prima di tutto, il mio intento è quello di impostare un dialogo con tutti voi che per caso o volutamente, leggerete le parole contenute in quest’articolo. Probabilmente vi sarete chiesti per quale motivo ho pensato di chiamare questa rubrica “Gocce di memoria”: il motivo principale di questa scelta è riconducibile al voler raccontare delle storie che, a mio parere, rimangono parte integrante della storia del nostro paese. Queste storie ci appartengono come italiani e come cittadini del mondo perché in esse c’è un paese che a stento è stato raccontato dai principali mezzi di comunicazione nazionale. Molte di queste storie sono finite solamente nelle pagine di qualche testata giornalistica locale, quando invece meritavano di essere conosciute da tutti per difendere l’impegno dei tanti italiani che, con coraggio e impegno civile, si sono battuti per il bene del nostro paese. Si tratta delle storie di quegli uomini e di quelle donne che nel ruolo di magistrati, di carabinieri, di giornalisti o anche di comuni cittadini, non hanno esitato a opporsi al dominio di tutti quei poteri che hanno generato nient’altro che violenza e terrore. Ognuna di queste persone è morta sotto i colpi dei gruppi eversivi appartenenti ai movimenti del terrorismo italiano e sotto quelli delle varie organizzazioni criminali che, ahimè, ancora oggi seminano morte e corruzione in tutto il paese. Come spesso accade, la maggior parte di loro sono stati eliminati per aver fatto quello che era il loro dovere. In realtà, molti di questi uomini furono eliminati perché sfortunatamente si trovarono nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’oblio in cui sono caduti tutti questi figli italiani, ha contribuito a cancellare ogni traccia delle loro preziose esistenze. Fortunatamente, nel nostro paese c’è stato chi si è impegnato in senso opposto ricordandoci quante siano le vittime innocenti della violenza criminale che con assoluta rapidità, divennero anche prede dell’indifferenza. Quell’indifferenza che per molti versi appare ancora più pericolosa di una raffica infinita di pallottole. Grazie all’attività svolta da “Libera” di Don Luigi Ciotti e da altre associazioni che si sono schierate in difesa della legalità, ci sono state restituite tantissime storie che non possiamo e che non dobbiamo ignorare. Secondo i dati ufficializzati da “Libera”, sono circa 900 le vittime travolte dalla ferocia delle mafie, di cui si conoscono nomi e cognomi. A queste 900 vittime innocenti, si aggiungono quelle di tutti gli altri sistemi criminali che, interrompendo il cammino di queste vite, hanno rimosso un qualcosa che è strettamente legato a noi e alla nostra dignità di cittadini. Infatti, l’Italia che traspare da queste storie è la stessa Italia che con gioia spesso mi capita di incrociare nel mio quotidiano. Lo stesso paese che il grande cantautore De Gregori descriveva con queste meravigliose parole nel brano “Viva l’Italia”: “L’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste”. In questa frase è racchiusa quell’Italia costituita dai sogni puliti di ogni italiano che unisce alle sue capacità i principi del vivere civile e morale. A tal proposito, credo sia importante preservare tutte quelle storie che dovevano essere subito ricordate e che invece sono morte sul nascere. Dunque lo scopo principale della mia rubrica consisterà nel promuovere la memoria facendo leva sull’inestimabile valore della legalità. Mi dedicherò anche a mantenere vivo il ricordo di vite che con la loro arte, la loro sensibilità, i loro ideali e le loro idee hanno avuto la capacità di tendere un’ancora di salvezza all’intera umanità. C’è però un aspetto che è di fondamentale importanza per qualunque persona che si adoperi nell’esercizio della comunicazione. Quest’aspetto siete tutti voi con la vostra voglia di conoscere. Voi che con gli occhi e con il cuore, potete appropriarvi di queste storie dandogli la loro autentica identità. Il mio personale desiderio è che ognuno di noi possa trasferire questa memoria anche a chi nascerà domani. Prima di terminare questo mio primissimo articolo, vorrei ringraziare tutti gli altri ragazzi che come me, hanno deciso di creare in questo blog delle loro personali rubriche. In particolare, ringrazio Ivan che mi ha dato la possibilità di partecipare a questo progetto. Vi ricordo che, qualora vogliate lasciare dei commenti su quest’articolo, sarò felicissimo di leggerli. Il video che ho postato insieme all’articolo è un estratto del bellissimo intervento pronunciato da Don Ciotti in occasione della sedicesima Giornata della memoria in ricordo di tutte le vittime delle mafie, organizzata a Potenza lo scorso 19 marzo 2011.

Un carissimo saluto a tutti voi….

Pasquale Scordamaglia