Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria……

Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà, di impunità

Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta, la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie

Coltivando tranquilla
l’orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un’anestesia
come un’abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità

per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità

ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un’anomalia
come una distrazione
come un dovere.

“Smisurata preghiera”, traccia conclusiva di “Anime salve”, ultimo album di Fabrizio De Andrè composto con la collaborazione di Ivano Fossati e inciso nel 1996, nasce da una proficua collaborazione letteraria: la canzone è infatti liberamente tratta dalla “Saga di Maqroll il gabbiere”, raccolta di poesie dello scrittore e poeta colombiano Alvaro Mutis, il quale dichiarò, dopo aver ascoltato il brano di Faber, che “l’eleganza, la forza, la grazia di quei versi, vestiti di una musica come di sogno, non potevano che provenire dalla mente e dal cuore di un artista immenso; forse dovevo essere io, tra i due, quello lusingato di aver incontrato l’altro”. Ora, il gabbiere è il marinaio addetto alle vele di gabbia, quelle poste sopra la vela maggiore, dunque è una persona esperta che osserva il mondo dall’alto e funge anche da vedetta; in De Andrè invece a guardare tutti da una posizione di superiorità è la “maggioranza”, ovvero quella massa informe di umanità che, contando sul fattore numerico, si ritiene in diritto di vessare, tormentare e depredare con superbia e astuzia, impunemente, le “minoranze” costituite da coloro che vengono emarginati dalla società, i reietti, quelli che “viaggiano in direzione ostinata e contraria”, ai quali Faber si è sentito sempre vicino e affine. Gli ultimi, i disperati, i “disobbedienti alle leggi del branco” muovono i passi estremi tra “il vomito dei respinti, per consegnare alla morte una goccia di splendore”, in quanto sono proprio l’ostinazione degli esclusi a sopportare tutte le avversità e la loro umanità, a conferire alla morte un senso, a darle un alto valore, laddove altrimenti sarebbe un’inutile, spento e vuoto momento dell’esistenza. La penultima strofa della canzone in cui si fa riferimento ad Aqaba e a un misterioso guaritore è tratto da alcuni versi del “Caravanserraglio” e dal romanzo “Amirbar”, entrambe opere di Mutis. Si è avanzata l’ipotesi che potrebbe trattarsi di un riferimento a Che Guevara, il quale, da giovane studente di medicina, viaggiò in luoghi dimenticati da Dio, curando malati di lebbra e lasciando figli con “improbabili nomi di cantanti di tango”. Ma ecco che, nella strofa di chiusura, si esplicita, attraverso l’invocazione alla divinità, il tema della preghiera: il cantautore genovese auspica l’intervento del Signore in aiuto dei “servi disobbedienti”, i quali, dopo tanto soffrire meritano la doverosa ricompensa divina anche a costo di doverla ricevere per caso, per una distrazione della fortuna (quasi sempre dispensatrice di privilegi per i potenti) che alteri il corso abituale degli eventi.

Oggi in tutte le società rette dalla democrazia la vita politica si basa sulle decisioni delle “maggioranze”: De Andrè, con questo brano, ci ha messo in guardia, facendoci comprendere che non sempre (anzi, molto spesso è il contrario) le idee del maggior numero di persone sono le migliori, le più giuste, le più eque: non dimentichiamoci che nella storia le maggioranze votarono anche per l’elezione di osceni dittatori come Hitler e Mussolini. Dunque un buon punto di partenza sarebbe quello di non considerare infallibili le “maggioranze”, prestando sempre orecchio ai pensieri, alle opinioni e ai bisogni di quel ristretto numero di anime che in ogni tempo e in ogni luogo viaggiano in direzione ostinata e contraria.

                                                                                                             Ivan Corrado


La linea orizzontale ci spinge verso la materia; quella verticale verso lo spirito….

Come un branco di lupi
che scende dagli altipiani ululando
o uno sciame di api
accanite divoratrici di petali odoranti
precipitano roteando come massi da
altissimi monti in rovina.

Uno dice: che male c’è a organizzare feste private
con delle belle ragazze
per allietare primari e servitori dello stato?

Non ci siamo capiti
e perché mai dovremmo pagare
anche gli extra a dei rincoglioniti?

Che cosa possono le leggi
dove regna soltanto il denaro?
la giustizia non è altro che una pubblica merce…
di cosa vivrebbero
ciarlatani e truffatori
se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente?

La linea orizzontale
ci spinge verso la materia,
quella verticale verso lo spirito.
Con le palpebre chiuse
s’intravede un chiarore
che con il tempo e ci vuole pazienza,
si apre allo sguardo interiore:
inneres auge, das innere auge

la linea orizzontale ci spinge verso la materia,
quella verticale verso lo spirito.
la linea orizzontale ci spinge verso la materia,
quella verticale verso lo spirito.

ma quando ritorno in me,
sulla mia via, a leggere e studiare,
ascoltando i grandi del passato…
mi basta una sonata di Corelli,
perché mi meravigli del creato!

 

“Inneres Auge”, prima traccia dell’omonimo album di Franco Battiato pubblicato nel 2009, è uno dei brani più densi di misticismo del Maestro siciliano; un pezzo dove l’influenza delle filosofie orientali (alle quali da sempre è stato fedele il cantautore) si fa sentire maggiormente che altrove. L’incipit della canzone, scritto  dal filosofo anarchico Manlio Sgalambro, ci mostra una raffinata e incisiva allegoria della catastrofica situazione politica italiana ( i lupi rappresentano quei ripugnanti politicanti in giacca e cravatta che si sentono in dovere di pontificare su tutto, circondati da schiere di guardie del corpo, mentre le api fameliche sono presumibilmente il simbolo dell’avidità degli speculatori), preparando il terreno alla seguente e violenta invettiva di Battiato il quale, senza mezzi termini, sfoga il suo j’accuse contro gli immondi festini organizzati dall’ormai ex governo, criticando anche la deriva presa da tempo dalla società occidentale colpevole di aver assunto il denaro come valore assoluto, facendosi rapire dalla bassezza materiale dei lussi e degli agi mondani in un mondo popolato ormai da figure meschine di falsari, mestatori e venditori di fumo.  Alla “pars destruens” fa seguito la “pars costruens” del brano, nella quale viene proposto il rimedio per sfuggire a questa realtà miseranda e corrotta, ovvero l’esercizio spirituale in grado di schiudere il nostro “occhio interiore” (“Inneres auge” in tedesco) capace, secondo i tibetani, di farci riconoscere l’aura degli uomini, in base alla quale possiamo giudicare i singoli individui (quella nera corrisponde a grettezza e cupidigia, quella rossa a temperamenti iracondi e così via). Naturalmente per approdare ad un simile risultato occorre un lungo tirocinio interiore che può essere intrapreso soltanto distaccandosi dalla materialità del mondo per cominciare a seguire “la linea verticale” quella che ci eleva verso lo spirito. Chiudere gli occhi esteriori per stendere un velo pietoso sul “regno del materiale”e aprire quello interiore: è questa la ricetta di Battiato, il quale ci ricorda come “il tutto è più della somma delle sue parti” (come recita il sottotitolo dell’album), ovvero, per valutare totalmente la realtà dobbiamo essere in grado di andare oltre la mera osservazione delle parti materiali che compongono l’universo; solo così riusciremo a cogliere, attraverso l’insegnamento dei grandi del passato e l’inebriante ascolto della musica, ciò che a prima vista sfugge, ciò che è il vero motore del cosmo: l’anima.

                                                                                                                  Ivan Corrado


Non vedo più nessuno che s’incazza tra tutti gli assuefatti della nuova razza….

Non mi piace la finta allegria
non sopporto neanche le cene in compagnia
e coi giovani sono intransigente
di certe mode, canzoni e trasgressioni
non me ne frega niente.
E sono anche un po’ annoiato
da chi ci fa la morale
ed esalta come sacra la vita coniugale
e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni
ma io non riesco a tollerare
le loro esibizioni.

Non mi piace chi è troppo solidale
e fa il professionista del sociale
ma chi specula su chi è malato
su disabili, tossici e anziani
è un vero criminale.
Ma non vedo più nessuno che s’incazza
fra tutti gli assuefatti della nuova razza
e chi si inventa un bel partito
per il nostro bene
sembra proprio destinato
a diventare un buffone.

Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.

La mia generazione ha visto
le strade, le piazze gremite
di gente appassionata
sicura di ridare un senso alla propria vita
ma ormai son tutte cose del secolo scorso
la mia generazione ha perso.

Non mi piace la troppa informazione
odio anche i giornali e la televisione
la cultura per le masse è un’idiozia
la fila coi panini davanti ai musei
mi fa malinconia.
E la tecnologia ci porterà lontano
ma non c’è più nessuno che sappia l’italiano
c’è di buono che la scuola
si aggiorna con urgenza
e con tutti i nuovi quiz
ci garantisce l’ignoranza.

Non mi piace nessuna ideologia
non faccio neanche il tifo per la democrazia
di gente che ha da dire ce n’è tanta
la qualità non è richiesta
è il numero che conta.
E anche il mio paese mi piace sempre meno
non credo più all’ingegno del popolo italiano
dove ogni intellettuale fa opinione
ma se lo guardi bene
è il solito coglione.

Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.

La mia generazione ha visto
migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po’ di presunzione
di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso.

Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli.
E immagino un futuro
senza alcun rimedio
una specie di massa
senza più un individuo
e vedo il nostro stato
che è pavido e impotente
è sempre più allo sfascio
e non gliene frega niente
e vedo anche una Chiesa
che incalza più che mai
io vorrei che sprofondasse
con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un’astrazione
è un’idea di chi appartiene
a una razza
in estinzione.

“La razza in estinzione” di Giorgio Gaber è la quinta traccia dell’album “La mia generazione ha perso”, inciso nel 2001, nel quale il Signor G e il fido Sandro Luporini forniscono un amarissimo ritratto del malcostume della società moderna, evidenziando in maniera lucida e spietata i vizi e le assurdità di un mondo allo sbando, ormai ben lontano da quello sognato durante i gloriosi giorni vissuti dalla generazione precedente, alla quale appartengono i due autori. Proprio nel brano di cui discutiamo (vincitore tra l’altro della prestigiosa “Targa Tenco”), un Gaber stanco, deluso e nauseato dalla realtà in cui vive, fiaccato dal cancro che lo stroncherà due anni più tardi, esprime il suo doloroso e implacabile sfogo contrapponendo la denuncia delle storture di cui è afflitta la società attuale con il ricordo nostalgico di quegli anni in cui le ideologie erano vive, parti integranti dell’esistenza umana, in grado di muovere gli animi dei giovani e di tutti coloro che riuscivano a sentire nel loro cuore delle passioni capaci di spingerli all’azione e di alimentare la speranza di un futuro migliore. Ciò che amareggia profondamente Gaber è la constatazione che quella generazione è stata superata, sconfitta e soppiantata da una “nuova razza”, in cui non si distingue più l’individuo dalla massa assuefatta al potere, passiva e perciò priva di volontà di cambiamento. Gli accorati anatemi del Signor G si scagliano anche contro la Chiesa (evidenziando lo spirito anticlericale dell’autore), l’istruzione (mortificata dalle nuove procedure, “i nuovi quiz” che garantiscono l’ignoranza), e, soprattutto, la classe politica, dove regnano opportunismo, ipocrisia e disonestà. Ciò che traspare da tutta la canzone è un senso di fallimento, di disfatta, generato dalla presa di coscienza che conduce l’autore a riflettere su come gli ideali, i valori e i sogni per i quali aveva combattuto ai suoi tempi, sono andati in fumo, polverizzati e fagocitati da un mondo corrotto e cinico. La sua generazione ha perso; quella attuale possiamo ancora salvarla per riscattare anche la precedente, ma occorre svegliarsi prima che sia troppo tardi, prima che ci sia negata anche “l’ intenzione del volo”.

                                                                                                                  Ivan Corrado

 

                                                                               


E adesso aspetterò domani per avere nostalgia, signora Libertà, signorina Anarchia….

Se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio
di Dio il sorriso.

Ti ho trovata lungo il fiume
che suonavi una foglia di fiore
che cantavi parole leggere, parole d’amore
ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso
ti ho detto dammi quello che vuoi, io quel che posso.

Rosa gialla rosa di rame
mai ballato così a lungo
lungo il filo della notte sulle pietre del giorno
io suonatore di chitarra io suonatore di mandolino
alla fine siamo caduti sopra il fieno.

Persa per molto persa per poco
presa sul serio presa per gioco
non c’è stato molto da dire o da pensare
la fortuna sorrideva come uno stagno a primavera
spettinata da tutti i venti della sera.

E adesso aspetterò domani
per avere nostalgia
signora libertà signorina fantasia
così preziosa come il vino così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.

T’ho incrociata alla stazione
che inseguivi il tuo profumo
presa in trappola da un tailleur grigio fumo
i giornali in una mano e nell’altra il tuo destino
camminavi fianco a fianco al tuo assassino.

Ma se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio
di Dio il sorriso.

“Se ti tagliassero a pezzetti”, settima traccia dell’album senza titolo (verrà poi ribattezzato “Indiano” a causa dei contenuti e del disegno sulla copertina) del 1981 di Fabrizio De Andrè, è uno dei brani in cui il nitore della poesia del cantautore genovese raggiunge i livelli più elevati. Nonostante i primi versi possano ricordare “One of these days” dei Pink Floyd, l’ispirazione viene da un inno pellerossa poi rielaborato da Faber e Massimo Bubola, il coautore. La canzone si sviluppa come una grande metafora allegorica attraverso la quale De Andrè paragona la libertà, la fantasia e l’anarchia, (concetti intercambiabili secondo l’autore che, non a caso, durante i concerti si divertiva ad inserire nel testo la parola “anarchia” al posto di “fantasia”) a una donna amata. Il brano racconta di come la libertà e la fantasia siano a tal punto connaturate all’uomo che ogni tentativo di recidere questo atavico legame è destinato a fallire poiché la natura (il vento, il regno dei ragni, il polline) troverà sempre il modo di riallacciarlo. Nonostante i tentativi di liberticidio perpetrati continuamente dalla società massificante, il cui intento è di appiattire le coscienze conducendo gli individui ad un graduale imborghesimento, il mondo naturale garantisce la custodia e la salvezza di quei valori che costituiscono il fondamento dell’essere umano e ciò per cui vale davvero la pena vivere. Nel testo si dipana gradualmente l’”innamoramento” di De Andrè con la libertà e l’anarchia: prima la incontra lungo il fiume, poi assaggia le sue labbra, balla con lei inebriandosi di quella sensazione di vitalità che solo il sentirsi liberi può far sperimentare e finisce ad amoreggiare con lei. Dopo alcuni alti e bassi (“persa per molto, persa per poco”) con grande nostalgia e tristezza la ritrova costretta in un tailleur grigio fumo con i giornali sotto braccio (chiari segnali dell’imborghesimento) mentre tiene per mano il suo assassino, ovvero la società conformista, gretta e priva di afflati passionali e libertari. Ma il brano si chiude con l’incrollabile speranza che, se anche tutto complottasse per far sparire dal mondo la fantasia e la libertà, ci penserebbe la natura a salvaguardare questi beni preziosi che consentono all’uomo di vagare a poprio piacimento, senza costrizioni, nell’infinito e caleidoscopico universo della vita.

                                                                                                                 Ivan Corrado

 


Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire…

Un vento a trenta gradi sotto zero
incontrastato sulle piazze vuote e
contro i campanili
A tratti come raffiche di mitra
disintegrava i cumuli di neve
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi per scacciare i lupi e
vecchie coi rosari
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi per scacciare i lupi e
vecchie coi rosari

 Seduti sui gradini di una chiesa
aspettavamo che finisse messa e
uscissero le donne
Poi guardavamo con le facce assenti
la grazia innaturale di Nijinsky
E poi di lui s’innamorò perdutamente
il suo impresario e
dei balletti russi
E poi di lui s’innamorò perdutamente
il suo impresario e
dei balletti russi

 L’inverno con la mia generazione
le donne curve sui telai
vicine alle finestre
Un giorno sulla Prospettiva Nevskij
per caso v’incontrai Igor Stravinskij
E gli orinali messi sotto i letti per la notte
e un film di Ejzenstejn sulla rivoluzione
E gli orinali messi sotto i letti per la notte
e un film di Ejzenstejn sulla rivoluzione

 E studiavamo chiusi in una stanza
la luce fioca di candele e lampade a petrolio
E quando si trattava di parlare
aspettavamo sempre con piacere
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba
dentro l’imbrunire
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba
dentro l’imbrunire

“Prospettiva Nevskij” di Franco Battiato, quarta traccia dell’album “Patriots”, inciso nel 1980, è uno dei grandi classici del Maestro. Il brano è un chiaro esempio di ciò che mi piace chiamare “musica pittorica”; le parole del testo, dotate di una forte carica evocativa, ci permettono di visualizzare nella nostra mente le scene descritte, come se ci trovassimo di fronte ad un quadro. L’ambientazione è decisamente originale: siamo catapultati in Unione Sovietica, ai tempi della NEP, la Nuova Politica Economica lanciata da Lenin nel 1921, quattro anni dopo la conquista del potere, con l’obiettivo di affrontare gli enormi problemi lasciati dal disastroso primo conflitto mondiale da poco concluso e quelli derivanti dalla guerra civile ancora in corso in molte zone del Paese.La NEP rimetteva in circolo elementi di libertà, fin lì soffocati, nell’economia, nella società civile e nelle arti, ridando spazio all’iniziativa individuale, pur se ancora controllata dal partito bolscevico al potere. Questo periodo storico si concluse ben presto con la morte di Lenin nel 1924 e con l’ascesa di Stalin.

Già il titolo della canzone è significativo: la Prospettiva Nevskij è infatti la strada principale di San Pietroburgo (ex Leningrado), un grande viale dedicato ad Alexander Nevskij, storico condottiero russo che respinse l’offensiva dei cavalieri teutoni nel Medioevo. Utilizzando come metafora il vento gelido del rigidissimo inverno sovietico, Battiato evoca le mitragliatrici adoperate prima dalla polizia zarista contro i manifestanti e poi dalle guardie rosse bolsceviche per il colpo di stato rivoluzionario dell’ottobre 1917; il Paese è ancora dilaniato dalla guerra civile contro le guardie bianche leali allo zar e le strade sono illuminate dai fuochi accesi per scacciare i lupi, simbolo del capitalismo reazionario. Nei versi successivi viene invece mirabilmente ritratto il clima culturale vivace e stimolante che si respirava a quei tempi, attraverso la citazione di grandi artisti dell’epoca come il ballerino Vaslav Nijinsky, il compositore e innovatore Igor Stravinskij e il regista Sergej Ejzenstejn, il cui “film sulla rivoluzione” (si tratta di “Ottobre”) accende di speranza gli animi di coloro che sognavano un futuro di libertà e indipendenza da qualsivoglia tipo di giogo. Ciò che rende questo brano un autentico capolavoro è però il verso finale in cui il cantautore siciliano, prendendo spunto dal filosofo di origine greco-armena George Gurdjeff (è molto probabilmente lui il “maestro” di cui si parla nel testo), riflette su come sia ostico “trovare l’alba dentro l’imbrunire”, espressione che manifesta la difficoltà di trovare il buono, ciò per cui vale la pena vivere, nei periodi oscuri attraverso un faticoso percorso di ricerca della verità che porti ad una nuova consapevolezza di sé e ad un livello di vita superiore. Certo è che, nei giorni che stiamo vivendo, è davvero arduo scorgere quell’alba….

                                                                                                     Ivan Corrado


Libertà è partecipazione……

Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato
che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco
con la gioia di inseguire un’avventura.
Sempre libero e vitale
fa l’amore come fosse un animale
incosciente come un uomo
compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

 Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto
che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura
con la forza incontrastata della scienza
con addosso l’entusiasmo
di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero
sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche un gesto o un’invenzione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

“La libertà” di Giorgio Gaber, incisa nell’album del 1972, “Dialogo tra un impegnato e un non so”, in cui sono raccolti i brani dell’omonimo spettacolo teatrale scritto dal Signor G e da Sandro Luporini, è la canzone manifesto degli ideali del suo autore ed offre la possibilità di aprire un’interessante discussione sulla vera essenza della “libertà”. Per Gaber, essere liberi non vuol dire banalmente poter fare tutto ciò che si vuole (“star sopra un albero”) lasciandosi trascinare da una dionisiaca ubriacatura di indipendenza, ma bensì ha un significato molto più profondo: la piena libertà umana si realizza quando tutti gli individui hanno la possibilità di partecipare, di sentirsi soggetti attivi di ogni decisione che riguarda la propria esistenza, senza l’obbligo di delegare passivamente ad un altro il compito di indirizzare il corso delle vite altrui. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un’alta concezione anarchica, ad un desiderio di azione, intesa come opportunità di incidere sul proprio quotidiano, e ad un rifiuto di qualsiasi organismo politico e non, che possa arrogarsi il diritto di stabilire “ciò che è meglio per tutti” senza consultare quei “tutti”. In questo contesto la libertà è anche possibilità per l’uomo di ricercare, sperimentare, esprimere se stesso senza condizionamenti ideologici, e dunque acquista grande rilevanza in pedagogia poiché, essendo intesa come partecipazione attiva alla vita del mondo intero, diventa al contempo la base, il presupposto e l’obiettivo dell’educazione stessa. La libertà gaberiana inoltre è positiva e negativa insieme: infatti, come ci insegna il filosofo e politologo britannico Isaiah Berlin, la “libertà positiva” riguarda la realizzazione della pienezza delle potenzialità umane (espressa in Gaber dallo slancio vitale che contraddistingue bergsonianamente l’uomo libero), mentre la “libertà negativa” si può configurare come l’assenza di un’interferenza o di una costrizione altrui ( manifestata nella canzone dalla necessità di “partecipare” per considerarsi indipendenti).

Rapportando il brano ai giorni nostri, il primo voto libero in Tunisia dopo la cacciata del dittatore Ben Alì, pur essendo comunque una manifestazione di quella democrazia “delegante” tanto criticata da Gaber, considerata la condizione precedente dello Stato tunisino, è un significativo passo avanti che ci permette di continuare a coltivare il sogno del Signor G di un mondo e di una società “liberamente anarchici”.

                                                                                                                 Ivan Corrado

 


Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti….

“Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.

Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c’eravate.

E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le “verità” della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.”

La “Canzone del maggio” di Fabrizio De Andrè, traccia d’apertura dell’album “Storia di un impiegato” inciso nel 1973, ha una genesi molto particolare. Il cantautore genovese prese spunto da un noto inno di protesta degli studenti parigini (il cui titolo originale era “Chacun de vous est concernè”, ovvero “Ognuno di voi è coinvolto”) composto da Dominique Grange durante il “Maggio francese”, il periodo che racchiude i movimenti di rivolta contro il capitalismo, l’imperialismo e la società dei consumi, verificatisi in Francia nella primavera del 1968. La versione italiana, più che un adattamento, sembra una di quelle straordinarie “traduzioni” di cui De Andrè era maestro; il testo riprende i temi cardine dell’originale francese, mentre la musica, composta insieme al fido Nicola Piovani, è del tutto inedita. Il brano è un provocatorio atto d’accusa lanciato dai giovani studenti, dagli operai e da tutti coloro che erano scesi in piazza in quei giorni gloriosi per sperare in un futuro migliore, contro i “borghesi”, terrorizzati dalla prospettiva di un cambiamento e convinti che il movimento avrebbe avuto vita breve, che l’ordine sarebbe stato presto ristabilito e che le loro coscienze ( in realtà addormentate dalle vuote chiacchiere, definite ironicamente “verità”, della televisione) sarebbero rimaste immacolate per il semplice fatto di aver evitato di schierarsi con i rivoltosi.

 Probabilmente, non tutti sanno che esiste anche una versione non ufficiale della canzone, molto più incisiva e “arrabbiata”, nota come “versione del vento”, nella quale Faber paragona il vento alla rivoluzione, proprio come fece il poeta inglese Percy Bysshe Shelley nel 1819 nell’”Ode al vento dell’Ovest”. In entrambe le opere il vento svolge un’azione purificatrice, apportando la novità, il mutamento; solo dopo aver raggiunto la libertà si può tornare a respirare liberamente.

Le tematiche affrontate nella canzone sono quanto mai attuali: proprio in questi giorni, infatti, in tutto il mondo sembra esserci un’ondata di risveglio, una voglia di cambiare le cose, un desiderio di smantellare obsolete e ammuffite istituzioni, culminato nei cortei che hanno avuto luogo un po’ ovunque nel pianeta. Purtroppo, in Italia, la voce dei manifestanti è stata coperta dalle scellerate violenze compiute da persone in realtà completamente prive della volontà di modificare il drammatico status quo. Ma, nonostante la tristezza provocata dalle desolanti immagini provenienti da Roma, abbiamo ancora la forza di guardare avanti con speranza perché, in fondo, con le parole della “versione del vento” (di cui riporto in seguito il testo integrale),  possiamo urlare ai “borghesi”, ma anche e soprattutto ai violenti: “Voi non avete fermato il vento, gli avete fatto perdere tempo”……..

 “Anche se il nostro maggio

ha fatto a meno del vostro coraggio

se la paura di cambiare

vi ha fatto guardare in terra

se avete deciso in fretta

che non era la vostra guerra

voi non avete fermato il vento

gli avete fatto perdere tempo.

 

Anche se avete detto

non sta succedendo niente,

le fabbriche riapriranno,

arresteranno qualche studente

credendo che fosse un gioco

a cui avremmo giocato poco

voi siete stati lo strumento

per farci perdere un sacco di tempo.

 

Se avete lasciato fare

ai professionisti dei manganelli

per liberarvi di noi canaglie

di noi teppisti di noi ribelli

lasciandoci in buonafede

sanguinare sui marciapiede

anche se ora ve ne fregate,

voi quella notte voi c’eravate.

 

E se nei vostri quartieri

tutto è rimasto come ieri,

se sono rimasti a posto

perfino i sassi nei vostri viali,

se avete preso per buone

le “verità” dei vostri giornali

non vi è rimasto nessun argomento

per farci ancora perdere tempo.

 

Lo conosciamo bene

il vostro finto progresso

il vostro comandamento

“Ama il consumo come te stesso”

e se voi lo avete osservato

fino ad assolvere chi ci ha sparato

verremo ancora alle vostre porte

e grideremo ancora più forte

per quanto voi vi crediate assolti

siete per sempre coinvolti,

per quanto voi vi crediate assolti

siete per sempre coinvolti.”

 

 

                                                                                                        Ivan Corrado


Anarchia e violenza: un rapporto controverso….

“L’anarchia è l’ordine senza il potere…”: vorrei partire da questa affermazione del filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon per illustrare la mia concezione dell’anarchia e inaugurare in tal modo questa rubrica. Al giorno d’oggi siamo portati quasi naturalmente ad associare il termine “anarchia” (derivante dal greco antico ἀν-ἀρχή, ovvero “senza governo”) al caos, al disordine e, di conseguenza, alla violenza. Del resto, l’idea di dover fare a meno di un governo, analizzata superficialmente, ci sgomenta, proiettando nelle nostre menti le poco rassicuranti immagini di una guerra di tutti contro tutti, una sorta di Far West privo di regole che tutelino la nostra incolumità fisica e psichica. Ad alimentare la diffusa credenza che anarchia faccia rima con scompiglio, distruzione e confusione, hanno contribuito gli attentati compiuti in numerose parti del mondo da sedicenti anarchici, i quali altro non erano che biechi e volgari terroristi. Come ci insegna Proudhon, infatti, l’autentico anarchico non è colui che si sente in diritto di compiere qualsiasi deprecabile azione, seminando il panico, ma bensì  è un individuo in grado di autogestirsi grazie a salde leggi morali, le quali gli consentono di fare a meno di quelle coercitive imposte da qualsivoglia tipo di potere istituzionalizzato. Dunque, l’anarchia, valutata in profondità, è un alto concetto filosofico che nulla ha a che fare con la violenza e che, anzi, rifugge da questa. Il filosofo tedesco Walter Benjamin arriva addirittura a ribaltare tutte le convinzioni secolari, associando alla violenza proprio quel diritto (ovvero l’insieme di leggi imposto da uno Stato), il cui compito sarebbe quello di difenderci da ogni abuso; secondo Benjamin, invece, il diritto esercita una “violenza fondatrice”, consistente nell’imposizione brutale di un ordine, e una “violenza conservatrice”, volta a garantire il mantenimento di quell’ordine.

Secondo quanto abbiamo affermato fin qui, dunque, per edificare un’autentica società anarchica il primo passo consisterebbe in una rivoluzione culturale attraverso la quale ogni individuo arrivi ad essere in grado di regolamentare autonomamente la propria esistenza. Purtroppo sono il primo a rendermi conto che attualmente siamo ben lontani da un risultato del genere ma, nonostante questo, con le parole di Fabrizio De Andrè, “aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finchè la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate un’utopia”; del resto, come afferma lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, “l’utopia è come l’orizzonte; non si raggiunge mai ma ci permette di continuare a camminare”……..

                                                                                                                  Ivan Corrado